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Quando i bambini sono vittime dei giudici, la storia di una madre

di Silvia Mari

Immaginate “una bambina che per 20 minuti sta con gli occhi chiusi – durante la CTU – in collegamento con il riconosciuto padre”. Immaginate “un giudice che in aula dice che la convenzione di Istanbul – che tutela donne e minori dalla violenza – non è in vigore. Frida incarna l’esemplificazione della vittimizzaziome secondaria tante volte. Nei tribunali, nei percorsi legali, nei contesti sociali”. È la denuncia forte che , per voce dell’avvocato Camilla Di Leo, è tornata a farsi sentire nel ‘cuore’ delle Istituzioni con una conferenza stampa alla Camera dei deputati promossa dalla deputata Stefania Ascari che ha visto al tavolo altre deputate e senatrici, e una precisa agenda di impegni per il futuro che non dimentichi gli esiti del lavoro di inchiesta della precedente Commissione sul femminicidio e i 36 casi esemplari di madri e bambini che da vittime sono finiti sul banco dagli imputati.

La bambina dagli occhi chiusi è la figlia di Frida: una storia che denuncia quello che accade a una madre in Italia se il padre che non voleva quella gravidanza e nemmeno quella nascita cambia idea e ritorna sui suoi passi. È il nodo dell’articolo 250 sul riconoscimento tardivo dei minori che discrimina le madri dai padri e che, secondo molti esperti della materia, andrebbe riformato. Vi era una pdl che oggi giace in commissione giustizia dove è approdata a gennaio 2023 e che deve essere ancora calendarizzata, ma nel caso di Frida ci sono anche due ctu della cosiddetta alienazione parentale che hanno orientato tutto il procedimento giudiziario quando il padre biologico della minore ha chiesto non solo il riconoscimento della bambina, ma anche l’inversione di collocamento. “In un caso analogo che ho seguito – ha spiegato l’avvocata Di Leo – il tribunale di Bologna e il servizio sociale è stato lungimirante e si è stabilito che un’azione di Stato (ndr, quella che modifica lo stato di una persona) non possa essere messa in esecuzione senza espletare i tre gradi di giudizio. Nel caso di Frida, invece, il servizio sociale si è arroccato su un’ interpretazione errata. Cosi, questo il paradosso che si crea, un minore dopo il primo grado si trova attribuito un cognome e magari in appello gli viene tolto. Un’assurdità e un grave pregiudizio per il minore. Non c’è stata in questo caso nessuna eco delle allegazioni di violenza, ne è stata sentita la bambina. Nessun giudice ha approfondito”.

Nel lungo procedimento giudiziario al Tribunale di Venezia, giunto fino alla Cassazione “ho anche denunciato – ha ricordato Di Leo – una relazione dei servizi sociali falsa. Nonostante la visita a casa fosse stata annullata dai servizi 24 ore prima, la relazione la descriveva come mamma non collaborativa, che opprimeva la socialità della figlia. Questa denuncia è passata sotto silenzio”.