Francesca, dopo che la sua Stefania è stata uccisa a soli vent’anni dall’ex, ha sviluppato un disturbo cronico dipendente dal lutto “tale da evocare un danno biologico permanente, oltre che esistenziale”. Carla, che ha perso allo stesso modo la sua Anna, controllata in modo ossessivo dal marito, picchiata, infine uccisa e ritrovata sulle sponde di un fiume, dal giorno della sua scomparsa si occupa del nipote, Igor. All’epoca aveva 3 anni, oggi ne ha 18, passati tra un trattamento sanitario obbligatorio, tre comunità terapeutiche, notti in preda all’ansia, mano nella mano con la nonna, che fatica a trovare i soldi per pagare le cure. Giacomo ricorda i posti in cui il padre, prima di ucciderla, ha picchiato per anni la sua mamma, sbattuta con lui fuori di casa, sulle scale, al freddo. Fino alla terza elementare non ha voluto imparare a scrivere, oggi va a presidi e fiaccolate, nelle scuole, a parlare di cos’è l’amore. A scorrere le pagine di
“Ho cercato di concentrarmi sulle conseguenze dei femminicidi sulle famiglie come prime cellule della società. Volevo lasciar immaginare, a chi non ha vissuto questa grossa ingiustizia, i suoi risvolti emozionali, considerando tutti i passaggi che devono superare queste famiglie, che spesso avvertono un senso di abbandono da parte dello Stato“, spiega all’agenzia di stampa Dire Stefania Prandi, giornalista, scrittrice e fotografa, autrice del libro pubblicato a fine settembre per Settenove, casa editrice da anni impegnata sui temi di genere.
Il primo grande ostacolo che certe famiglie devono affrontare “è addirittura la possibilità di avere un corpo su cui piangere, perché succede che il cadavere delle vittime venga occultato e il femminicidio fatto passare per un allontanamento volontario– continua Prandi- Il secondo è avere giustizia: affrontare processi spesso molto lunghi, sia in sede penale che civile. Oltre alla fatica, anche le spese nei casi dei processi civili. E se, dalla difesa, viene chiesto e ottenuto il rito abbreviato, essere costrette ad assistere in silenzio alle parole spesso offensive sulla vittima, senza che si possa esprimere nemmeno un’opinione su quanto viene detto in aula”. Un paradosso che la giornalista definisce “femminicidio nel femminicidio”.
IL PROBLEMA PIÙ GRANDE: PRENDERSI CURA DEGLI ‘ORFANI SPECIALI’
SE LA VITA DI UNA DONNA VALE AL MASSIMO 15 ANNI
È però il settore giudiziario il vero tallone d’Achille di un sistema che troppo spesso non garantisce giustizia. “Secondo i familiari che ho intervistato, una società che permette che un femminicida stia in carcere tra i 7 e i 15 anni, quindi che la vita di una donna valga quel tempo, non affronta in modo idoneo il problema- dice sicura Prandi- E non e’ questione di vendetta ma di giustizia- precisa- Nonostante le condanne siano anche lunghe, la pena effettiva che i femminicidi scontano in carcere viene spesso ridotta. E questo non funge da deterrente. I familiari
IL SENSO DI VUOTO E L’ATTIVISMO DI CHI RESTA
Un vuoto incolmabile che tantissime madri cercano di riempire con l’attivismo, andando nelle scuole, aiutando altre donne in difficoltà a rivolgersi ai centri antiviolenza, partecipando a incontri di sensibilizzazione, facendosi intervistare in tv. “Le famiglie che racconto nel libro le ho incontrate seguendo questa traccia. Sono famiglie che si impegnano per migliorare la societa’, per fare in modo che la loro amata non sia morta invano e dare un contributo contro la violenza sulle donne”, racconta Prandi, che al lavoro di scrittura del reportage iniziato nel 2016 ha affiancato una serie di scatti confluiti nella mostra itinerante ‘Le conseguenze’, allestita lo scorso anno a Bologna e a settembre 2020 in provincia di Brescia con Rete di Daphne onlus. “Gran parte del sistema mediatico è ancora fissato su un modo sensazionalistico e stereotipato nel racconto dei femminicidi. Leggiamo ancora articoli nei quali sono le vittime a venire messe sotto accusa, mentre per gli assassini c’è sempre una giustificazione, dal raptus alla passione eccessiva”, denuncia la scrittrice e racconta che alla base dei rifiuti a partecipare al reportage da parte di alcuni parenti delle vittime c’era proprio una mancanza di fiducia nei confronti della categoria. “Alcuni hanno lamentato un atteggiamento pietistico da parte di giornali e trasmissioni tv o il tentativo di creare scandalo- spiega- Spesso mi hanno detto di essere guardati con sospetto, quasi fosse colpa delle famiglie, di non essere state abbastanza in gamba da crescere una figlia emancipata. La sorella di una delle donne uccise mi ha confessato che ogni volta che sente di un femminicidio rivive il trauma, proprio per il racconto pieno di stereotipi che se ne fa“.
Il libro, invece, è un tentativo di narrazione differente, “di far emergere il loro punto di vista mediando il meno possibile. Sono persone che hanno fatto diventare il loro dolore politico, che si impegnano anche nelle istituzioni. Alcune vengono ascoltate dalle Commissioni parlamentari ed è anche grazie a loro che si è arrivati all’approvazione della legge 4 del 2018- conclude Prandi- Noi non li vediamo, ma loro stanno lavorando”. Nonostante tutto, in ricordo delle loro amate.