FONTE GAMBERO ROSSO

Non chiamatelo solo olio, d’oliva quando va bene. Anche extravergine non basta. Da dove viene, dove è cresciuto, come è stato estratto? E quanto costa? Il prezzo corretto, innanzitutto: come da polemica recente, se per il ministro Francesco Lollobrigida 30 euro al litro sono una cifra corretta per un buon olio, l’ex senatore Toninelli li definisce “una follia totale”. Un importatore d’olio dice: mi fanno storie per comprare un olio Evo a 20 euro al litro, poi vai a fare il tagliando della macchina e l’olio che ti mettono costa il 50% in più. L’olio d’oliva lo introduci nel tuo organismo: dovresti essere più disposto a spendere di più per ciò che ti fa bene che per ciò che fa bene alla tua macchina. Giusto? In teoria, limpido e lapalissiano. Eppure è questo il paradosso dei prodotti (apparentemente) troppo noti, troppo famigliari, da sempre sulle nostre tavole: li diamo per scontati, pretendiamo di conoscerli senza saperne in fondo poco o nulla. E pretendiamo di pagarli poco, senza farci troppo domande su cosa ci portiamo a casa.

È una lotta, questa verso la qualità, che sta alla base del lavoro di Fioi, la Federazione italiana ovicoltori indipendenti. Che ha fatto del “piccoli ma buoni” una sorta di credo e manifesto. Ne parliamo con il presidente Pietro Intini.

Dal pane al caffè all’olio la polemica sul prezzo ciclicamente arriva: è tutto giusto, ma quelli buoni costano troppo. Dobbiamo rassegnarci al fatto solo i ricchi si possono permettere di mangiar bene?

Ci sono prodotti che devono costare poco e stop, è anche una questione culturale

È la sensibilità di sapere che è giusto per te, per tuo figlio, per l’ecosistema. È una scala di valori, di percezione su quello che conta, è una questione economica ma anche culturale. Poi chi non può proprio deve fare dei compromessi, è normale.

 

Piccoli e indipendenti vuol dire anche tradizionali, vi rifate a una età dell’oro dell’olivicoltura?

Noi difendiamo con i denti un’olivicoltura “tradizionale”, ma con questo non intendiamo l’olivocoltore che va a raccogliere le olive con la scala, siamo aperti alle tecnologie, però difendiamo la biodiversità e ce ne facciamo portavoce perché la gente non ha idea che in Italia ci sono più di 550 varietà di ulivo, c’è un patrimonio incredibile. Eppure si parla solo di olio di oliva senza spingersi spesso neanche alla denominazione extravergine, quindi è importante il messaggio e come si comunica.

Poi dietro la terminologia olio evo c’è un mondo.

Soprattutto negli ultimi decenni l’olivicoltura è presa d’assalto da modelli olivicoli intensivi che utilizzano varietà che sono degli ibridi, coltivati su una superficie che arriva a diverse migliaia di piante per ettaro e con raccolta meccanizzata. È un sistema che prevede lo sfruttamento massimo delle risorse, perché quando si lavora in quelle condizioni c’è bisogno di acqua, di chimica, di mantenere ambienti di un certo tipo. Quando mi riferisco a un’olivicoltura tradizionale mi riferisco a un attaccamento al territorio e alla sua tutela, ma oggi in più facciamo quello che mio nonno non sapeva fare: con le tecnologie a nostra disposizione produciamo gli olii Evo migliori che si siano mai potuti produrre nella storia millenaria dell’olivicoltura. Se si entra in un frantoio che fa qualità si resta stupiti dalla ricerca e dagli investimenti in ambito tecnologico necessari per fare un grande olio.

Cioè?

Abbiamo mutuato dal mondo del vino molte tecniche, utilizziamo l’azoto, anche nella conservazione, filtriamo, è una prerogativa di Fioi ne facciamo un fondamento, i nostri prodotti devono essere filtrati, stoccati in acciaio a temperatura controllata sotto battente d’azoto. Negli ultimi cinque anni si è sviluppata la tecnologia del freddo perché ad esempio io in Puglia raccolgo a metà settembre con 30 gradi, non si può produrre a freddo. Le olive vengono stazionate in celle frigorifere, poi prima di iniziare il processo vengono lavate con acqua condizionata a 5-6 gradi per portare l’oliva alla temperatura ideale, questo perché con quella temperatura si riesce a sviluppare la lipossigenasi quindi le reazioni enzimatiche che altrimenti rimarrebbero bloccate o addirittura si potrebbero sviluppare processi fermentativi o cattivi odori. L’evoluzione cha ha fatto il vino e verso la quale l’olio sta iniziando a muovere i primi passi è riuscire a fare degli olii profumati e oggettivamente di qualità, perché non tutti gli olii Evo sono uguali. Nell’olio le Dop e Igp contribuiscono pochissimo, il che fa capire che non c’è nessun tipo di affezione verso l’origine. Alla fine il 95% dell’olio EVO è pensato per la Gdo con olive extra CEE o CEE. È quello che fa il mercato dell’olio. All’interno di Fioi ci sono azienda che 20 anni fa hanno iniziato a mettere dei tasselli per aumentare il livello qualitativo, ma occorre anche sensibilizzare il consumatore: se le due cose non vanno di pari passo non se ne esce.

Quali sono questi tasselli per fare qualità?

Parliamo di una produzione frutto di un attento monitoraggio di tutta la filiera. Che parte dalla coltivazione e selezione scrupolosa delle olive, con una raccolta che rispetta i diversi tempi di maturazione (invaiatura) che ciascuna varietà di oliva possiede. In caso di miscela, ogni varietà di oliva viene lavorata separatamente e solo in seguito assemblata. Gli Olivicoltori Indipendenti valorizzano le proprie olive, imbottigliandole, e firmandole con il proprio nome, con un processo di valorizzazione che rende l’olivicoltore consapevole di ciò che produce.

Il 95% degli olii Evo in commercio invece diciamo che sono “ambigui” perché derivano dalla produzione di olio che l’industria olearia ritira dai numerosi frantoi cooperativi che rivendono olio sfuso e che va poi a costituire grosse partite di olio che l’industria assembla e imbottiglia. In questi enormi assemblaggi le caratteristiche aromatiche e chimiche che si hanno nell’olio di qualità artigianale si perdono del tutto, perché la materia prima non ha subito nessuna selezione all’origine ed è stata lavorata senza i criteri necessari per ottenere olii di qualità. Da qui i ricorrenti scandali, con le associazioni di tutela dei consumatori che fanno esami a campione ed emerge che le caratteristiche non corrispondono alla categoria merceologica dichiarata, con difetto organolettico e parametri chimici non idonei per la classificazione Evo.

In Italia c’è il paradosso che l’olio non è sufficiente al nostro autoconsumo, però le aziende olivicole chiudono. Come mai?

Perché l’olivicoltura deve iniziare a fare quello scatto di reni che valorizzi il prodotto della propria campagna, del proprio ulivo, perché se si produce in maniera mediocre e banale e lo si conferisce in una filiera che fa altrettanto si crea un prodotto per i gruppi imbottigliatori che non hanno nulla a che vedere con la filiera di produzione. Per loro il valore aggiunto è il prezzo, per noi tutto quello che c’è dietro. Noi cerchiamo di mantenere quel suolo che si sta abbandonando, gli uliveti vengono abbondati e c’è richiesta di prodotto, cerchiamo di diffondere il messaggio verso il consumatore ma anche tra i produttori che non valorizzano cui diciamo di dare un nome a quella bottiglia, di fare qualità. Solo così riusciranno a essere sostenibili economicamente e a tutelare il loro paesaggio.

Intanto imperversa il dramma della Xylella.

Al momento ci sono solo quattro varietà resistenti, due sono ibridi e due sono varietà presenti in Italia. Noi come Fioi stiamo cercando di spostare l’attenzione da parte della ricerca sul nostro patrimonio olivicolo ricchissimo, vorremmo che queste due diventassero dieci. Non abbiamo nulla contro gli ibridi e gli incroci con varietà spagnole, ma ci piacerebbe avere una ricerca di resilienza e resistenza con varietà nostre perché hanno una matrice italiana, distintiva. Non per essere campanilisti, ma perché dobbiamo valorizzare quello che è nostro altrimenti andiamo a perdere il nostro patrimonio e a omologare la nostra produzione a quella dalla Spagna, primo produttore ed esportatore mondiale. Una rispettabilissima nazione, ma noi siamo un’altra cosa.

 

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