Pierangelo è sempre stato un uomo attivo: ha scoperto di essere affetto dalla malattia per caso, durante una visita sportiva, senza aver mai sperimentato alcun sintomo. Avrebbe dovuto soffrire di frequenti mal di testa, dolori ossei e articolari, inappetenza, perdita di peso e un’estrema stanchezza, quella sensazione di spossatezza che in gergo medico prende il nome di “fatigue”. E, invece, Pierangelo – da tuti conosciuto solo come Pier – stava benissimo. Stava così bene che il 4 novembre – giorno prima di sentirsi confermare la diagnosi di mielofibrosi – era andato ad allenarsi, correndo per oltre 15 chilometri. È ovvio che la notizia di esser affetto da un raro tumore del midollo osseo abbia colto di sorpresa non solo lui ma anche la moglie, che lo aveva accompagnato alla visita con l’ematologa.

“Eravamo seduti uno accanto all’altra mentre la dottoressa enumerava tutti i sintomi, nel tentativo di capire quale fosse il mio attuale stato di salute”, ricorda Pier. “Ad ognuno rispondevo negativamente. Ero in perfetta forma fisica ma, soprattutto, sprizzavo energia e vitalità da tutti i pori. Non mi sentivo come una persona ammalata di tumore. Per questo ero incredulo, e lo era anche mia moglie che, forse per alleggerire l’atmosfera durante la visita, affermò di essere lei stessa affetta da alcuni dei sintomi che avrei dovuto provare io”. È questa la sensazione che ha provato Pier al momento della diagnosi di mielofibrosi, una malattia caratterizzata dalla proliferazione dei globuli rossi e dall’anomala deposizione di tessuto fibroso nel midollo osseo.

La mielofibrosi può aver un decorso più o meno grave, a seconda di una serie di variabili: età d’insorgenza della malattia, presenza di una chiara sintomatologia o di una componente genetica sfavorevole, calo dell’emoglobina e aumento dei globuli bianchi, alta percentuale di blasti nel sangue periferico, marcata riduzione delle piastrine. Quest’ultimo parametro ha rappresentato il punto di partenza del cammino di Pier, che nell’arco di tutta la vita si è mantenuto sempre molto attivo: calcio (fino oltre i 50 anni), basket, tennis e mezze maratone. Si può dire che Pierangelo fosse tutto tranne che un uomo sedentario.

Un giorno presi appuntamento per la consueta visita sportiva, durante la quale la dottoressa, che era un’amica e al tempo seguiva la nazionale di nuoto a Verona, notò delle macchioline a livello della tibia”, prosegue. “Poiché era da molto tempo che non mi sottoponevo a un check-up mi raccomandò di fare le analisi del sangue, da cui risultò che avevo una grave forma di trombocitopenia, cioè una riduzione delle piastrine”. Il valore normale di piastrine oscilla tra 150-400mila cellule per millimetro cubo di sangue, mentre nel caso di Pier il riscontro era di appena 27mila: per tale ragione gli fu richiesta una serie di esami di approfondimento, al termine dei quali Pierangelo si sottopose a una visita ematologica. Il medico ordinò anche un esame del midollo osseo e, quarantacinque giorni dopo il prelievo, Pier fu contattato e invitato a colloquio dai medici, che gli comunicarono la diagnosi: mielofibrosi di grado intermedio. Secondo i modelli di punteggio in vigore – che distinguono un rischio basso, intermedio-basso, intermedio-alto e alto – la sopravvivenza mediana per i pazienti nella fascia di gravità di Pier va da 8 a 14 anni. “Avevo appena superato i cinquant’anni e mi sentivo in gran forma”, commenta Pierangelo. “Non potevo credere di avere una malattia del genere”.

Poche settimane più tardi Pier sostenne la visita con il dottor Nicola Polverelli [attualmente Responsabile dell’Unità di Trapianto di Midollo della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia, N.d.R.], che col tempo sarebbe divenuto un suo caro amico e che allora gli prospettò di sottoporsi a trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche, considerata l’unica soluzione definitiva per la mielofibrosi. “So che ad alcuni pazienti vengono prescritti specifici farmaci [tra di essi vi sono molecole come ruxolitinib, fedratinib oppure momelotinib, N.d.R.]”, racconta Pier. “Io, invece, ho assunto soltanto un medicinale per tentare di aumentare il numero delle piastrine e un trattamento con immunoglobuline: le mie condizioni, infatti, mi rendevano un candidato ideale per il trapianto”. Pier fu quindi iscritto nelle liste d’attesa per l’intervento e dopo alcuni rinvii fu chiamato in reparto. Nel frattempo, le analisi sui familiari avevano sancito una buona compatibilità con il figlio (risultato essere aploidentico al 50%). “Un mese prima del trapianto stavo parlando con il dottor Polverelli e gli chiesi se, al termine della procedura, avrei potuto riprendere a praticare sport come avevo fatto per tutta la vita”, ricorda. “Mi rispose – non lo dimenticherò mai – che sperava di ritrovarmi vivo da lì a un anno. Quella risposta mi gelò il sangue nelle vene, ma contribuì anche a cambiare il mio orizzonte di giudizio sulla mielofibrosi”.

All’inizio del gennaio 2021 – in piena epoca COVID – Pier completò il primo ciclo di chemioterapia: perse i capelli ma non l’ottimismo e la forza d’animo che lo contraddistinguono. Poi fece l’infusione di staminali prelevate dal figlio e da lì ebbero inizio i difficili giorni di isolamento. “Avevo ricevuto la massima dose possibile di cellule sulla base del mio peso corporeo e facevo analisi ogni mattina”, ricorda. “Vivevo in completo isolamento e anche una volta ritornato a casa, circa un mese dopo, mi ritirai in mansarda, lontano da tutti, per evitare infezioni”. La moglie e il figlio gli portavano il pranzo sulle scale, con guanti e mascherine, e Pier assumeva ad orari stabiliti la terapia che gli era stata prescritta (16 pastiglie al giorno). “A un certo punto il mio viso si gonfiò e fui costretto ad andare in pronto soccorso, dove mi spiegarono che avevo contratto la sesta malattia, una disturbo che da bambino non avevo avuto”, spiega l’uomo, facendo capire quanto sia delicata la situazione di un paziente immunodepresso, che è costantemente a rischio di contrarre qualsiasi malattia o infezione, con ripercussioni potenzialmente gravi. “Dai controlli periodici sembrava che le cellule trapiantate faticassero ad attecchire ma, dopo alcuni mesi, Polverelli mi comunicò che era ‘iniziata la discesa’. Capii immediatamente che le cose sarebbero andate per il meglio. Per me fu un momento cruciale”.

Da lì in avanti la condizione di Pier continuò a migliorare, consentendogli di riprendere a fare qualche camminata, poi qualche giro in bicicletta e, infine, a lavorare. “Sono passati tre anni dal trapianto e sto bene”, dichiara. “Le mie piastrine sono tornate entro i limiti di normalità e conduco un’esistenza serena insieme alla mia famiglia, che per tutto il tempo della malattia è sempre rimasta al mio fianco. Ringrazio ogni giorno i medici e le infermiere che si sono presi cura di me e che ancora adesso, ogni tanto, passo a salutare in reparto, dove ho vissuto un’esperienza di vita difficile ma dalla quale ho imparato quali siano le priorità della vita, e anche l’importanza di tenersi costantemente controllati. A volte basta un semplice esame del sangue per capire se qualcosa non sta andando per il vero giusto”.

Intervista a cura di OMAR – Osservatorio Malattie Rare

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