Quello dei pazienti affetti da mielofibrosi è in tutto e per tutto un calvario che spesso si prolunga per lunghi periodi di tempo. Ne sa qualcosa Marinella, oggi sessantaduenne, che ha cominciato ad avere a che fare con questo tumore ematologico a soli quarantasei anni, senza peraltro riportare alcuno dei sintomi comunemente ascritti alla malattia. Nel corso del tempo, però, il carico della mielofibrosi sulla sua vita si è fatto via via più pesante, prima con una sensazione di costante affaticamento, che la faceva sentire costantemente stanca e priva di energie, e poi con un’infiammazione della terminazione nervose che le aveva reso l’esistenza quasi del tutto insopportabile.
Poco più tardi Marinella cominciò a presentare i primi problemi legati all’ingrossamento della milza, perciò i medici eseguirono immediatamente un esame genetico alla ricerca della mutazione del gene JAK2, che interessa una buona metà di coloro che hanno la mielofibrosi: per questi pazienti, infatti, nel 2010 era in corso un trial clinico su un farmaco sperimentale, il ruxolitinib [oggi regolarmente approvato per il trattamento della splenomegalia o dei sintomi correlati alla malattia in pazienti con mielofibrosi primaria oppure con mielofibrosi insorta post-policitemia o post-trombocitopenia, N.d.R.]. Marinella, però, risultò negativa al test e non fu inserita nel trial. Nel frattempo, la sua milza continuava a crescere di dimensioni e la stanchezza si intensificava, tanto da farle risultare difficoltoso salire anche solo una piccola rampa di scale.
“Cinque anni dopo, nel 2015, mi fu comunque prescritto il ruxolitinib per tentare di riassestare, almeno in parte, la situazione”, continua la donna. “All’inizio i medici non osservarono miglioramenti nei miei valori ematici, che anzi aumentarono costringendomi a proseguire i salassi”. Il problema più grave rimaneva, però, a livello della milza, che era arrivata a circa 32 cm, una dimensione spropositata per una persona alta poco più di un metro e mezzo e del peso corporeo di meno di 60 kg. In queste condizioni, la milza spostava altri organi, tra cui il rene – con un serio pericolo di danni – e la vescica; inoltre comprimeva lo stomaco, costringendo Marinella a fare pasti piccoli e frequenti, composti in larga parte da minestre e passati di verdura, perché la digestione era diventata lentissima. La situazione era seria. Marinella, pur non avvertendo altri sintomi della mielofibrosi, si sentiva appesantita e provava forti dolori agli arti inferiori, sempre gonfi a causa del ristagno di liquidi provocato dalla compressione dei vasi sanguigni esercitata dalla milza ingrossata. La circolazione era pessima e nemmeno le calze elastiche le davano conforto.
Gradualmente, però, il farmaco ruxolitinib fece il suo effetto e le dimensioni della milza presero a scendere, ma nel contempo qualcosa di nuovo cominciò a infastidire Marinella. “Lo potrei definire un dolore pungente che si espandeva a tutto il corpo e che presto divenne insopportabile”, ricorda. “All’inizio la sensazione era come di insetti che mi camminassero appena sotto la pelle ma poi questa si intensificò, come se tutto il mio corpo fosse stato punto dalle ortiche. I medici pensavano fosse il prurito, un sintomo della mielofibrosi, ma io non mi grattavo: il dolore pungente era sempre più forte, cercavo di calmarlo col ghiaccio ma non funzionava”.
Marinella tentò di tutto: creme, balsami, prodotti a base di olio d’oliva, antistaminici, farmaci per l’epilessia, persino l’ozonoterapia: qualsiasi cosa per fermare quella sensazione che le stava rendendo la vita un inferno. “Arrivarono a dirmi che era un problema di origine psicosomatica ma sapevo che non poteva essere così. Finalmente fui visitata da un neurologo che capì al volo”, prosegue. “Mi ordinò uno studio neurofisiologico per la diagnosi del dolore neuropatico e concluse che si trattava di segni di disfunzione delle fibre nervose C con distribuzione prevalentemente distale e coinvolgimento simmetrico sia delle mani che dei piedi”. Marinella aveva un’infiammazione delle terminazioni nervose sensitive: era un effetto collaterale della terapia farmacologica ma non c’era una cura. Qualche tempo dopo, però, un otorinolaringoiatra e dentista, amico di famiglia, le suggerì di assumere un farmaco a base di calcio che, nel suo caso, avrebbe potuto portare un beneficio a livello neurologico [il calcio, infatti, è un elettrolita fondamentale nella trasmissione degli impulsi nervosi, N.d.R.]. “Funzionò”, afferma Marinella. “Da allora cominciai a migliorare e, grazie a questa soluzione, riesco a gestire meglio un effetto collaterale che adesso si manifesta più raramente e in forma leggera”.