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In corsia come in trincea: il lavoro dei camici bianchi è un viaggio nella paura

di Rachele Bombace

In corsia come in trincea, è un viaggio nella paura il lavoro dei camici bianchi. Sottoposti a carichi di lavoro eccessivi, contenziosi legali frequentissimi, stipendi bassi e turni massacranti, medici e specializzandi in Medicina si vedono più come ‘martiri’ che come ‘eroi’. Soli e sottodimensionati si dividono tra reparti, corsie e unità operative di Emergenza Urgenza sempre più affollate, e in queste condizioni di lavoro la paura di un errore è dietro l’angolo. Ormai in tutti gli ospedali i medici devono organizzare e frequentare corsi di autodifesa e di protezione del gruppo, perché le aggressioni fisiche e verbali ‘non si contano più’, secondo la Società italiana di medicina di emergenza urgenza (Simeu). E il futuro può fare davvero paura, tanto che molti giovani medici, spinti a cercare condizioni di formazione e di lavoro migliori, scappano all’estero.

La Fnomceo ha fatto sapere che il prossimo anno saranno circa 20mila i medici tra i 35 e i 40 anni che andranno all’estero, senza contare che sempre meno specializzandi scelgono ormai la vita della Medicina di Emergenza Urgenza. Il Pronto soccorso fa paura. “Conosco tante persone che hanno abbandonato la specializzazione alla fine, durante e dopo il percorso di formazione. Si lavora troppo e male perché il carico per ogni medico è eccessivo, il personale è sotto organico in tutti i Pronto soccorso mentre gli accessi sono davvero tantissimi. La pressione la sentiamo e c’è chi non regge e preferisce cambiare lavoro”. Parla alla Dire Alice Paludo, specializzanda di Emergenza Urgenza nell’Ospedale di Lecco ‘Alessandro Manzoni’, che ama la sua professione e resiste, ma sa anche che quando diventerà strutturata il peso del lavoro diventerà più gravoso. Ovviamente le donne sono più esposte. Ciò che spaventa Alice e le sue colleghe è soprattutto “la prospettiva di essere da sole in Pronto soccorso di notte. Sarei più tranquilla se ci fosse la sicurezza interna, ma non è sempre presente negli ospedali. Da sola contro un uomo aggressivo che pesa più del doppio di me potrei fare poco”.
La prima cosa a cui Alice pensa quando subisce o assiste ad una aggressione è “che è venuto meno il rispetto reciproco e della nostra professione”. La maggior parte delle aggressioni è dovuta “alle lunghe attese e alle dimissioni che, secondo parenti o pazienti, non sono adeguate. Questo parlando di pazienti non psichiatrici o sotto effetto di sostanze stupefacenti e aggressivi, perché quando arrivano loro in Pronto soccorso sono molto pericolosi”, dice. Se poi nei turni di notte ci sono “solo due medici donna e arriva qualche paziente che compie atti dimostrativi aggressivi allora il problema è reale”.

Lo stesso timore lo avverte Gianpaolo Schiavo, medico senior dell’ospedale di Lecco e membro del gruppo dei responsabili: “Ho 30 anni di esperienza alle spalle e sono preoccupato per gli specializzandi, soprattutto per le specializzande perché ormai la Medicina è al femminile e nell’Emergenza Urgenza i due terzi dei medici sono di genere femminile. Al di là dei discorsi di genere trovare due ragazze di notte che da sole devono gestire un Pronto soccorso intero è fonte di preoccupazione”.
Schiavo nella sua carriera ha incontrato dei medici che hanno scelto l’estero, che ora vivono a Londra e negli Stati Uniti, “ragazzi molto brillanti”. Il ‘mollo tutto e vado via’, spiega Schiavo, “è la reazione immediata e più funzionale per l’individuo. La fuga è un elemento protettivo del soggetto, considerando poi la scarsità di protezione istituzionale”. Nell’ospedale di Lecco, oltre la formazione collettiva sull’autoprotezione e la protezione del gruppo contro le aggressioni, “abbiamo ottimizzato i sistemi di protezione in collegamento diretto con le sale operative delle Forze dell’ordine mediante un dispositivo di allerta, tuttavia la latenza di tempo tra l’aggressione e il loro arrivo è sempre alta” avverte.
“Da un lato- spiega Fabio De Iaco, presidente della Simeu- una quota di rischio di aggressioni è connaturata al nostro lavoro, ma poi c’è tutto il resto: noi paghiamo le manchevolezze che arrivano dalle altre parti, con persone esasperate prima ancora di arrivare al Pronto soccorso. Paghiamo l’imbarbarimento dell’opinione pubblica e la mancanza di riconoscimento del nostro ruolo sociale, siamo perennemente sotto giudizio. Lo sentiamo nel contatto con le singole persone, che arrivano prevenute e ci dicono anche cosa devono fare. Sbraitano prima ancora che vengano visitate. Si è rotto il patto sociale tra la cittadinanza e il servizio sanitario. L’importante incremento della spesa privata in Sanità testimonia che il Ssn perde di efficacia e il cittadino si deve arrangiare da solo, non riconoscendo nel servizio le sue funzioni principali”.
Rispetto al passato, quello che sta cambiando oggi secondo De Iaco, è l’atteggiamento dei giovani davanti a queste condizioni di lavoro difficili e a un’escalation di rabbia sociale. “I nostri giovani dicono no a un meccanismo di totale compenetrazione tra identità personale e identità professionale- spiega De Iaco- non esiste più questa coincidenza e non perché non piaccia l’attività, anzi forse la nostra attività è quella che piace di più ai giovani medici, ma votarsi a questo tipo di vita con i prezzi che si devono pagare non è più conveniente. Bisogna dare più soldi e più tempo libero ai medici che fanno Emergenza Urgenza”. Altrimenti il rischio saranno presto Pronto soccorsi senza medici. “Gli specializzandi hanno un atteggiamento molto cauto rispetto alla professione. Convincerli a venire a lavorare è un’impresa- confessa il presidente della Simeu- anche quelli che hanno la migliore spinta personale si trovano sempre di fronte alla possibilità di scelta e sceglieranno giustamente la possibilità più comoda. Convincere poi un neo specialista a lavorare in un Pronto soccorso di frontiera è impossibile– conclude- perché potrà scegliere di lavorare in un centro più grande senza eccessivi condizionamenti sulla sua vita”.