In Italia, più della metà dei 4 milioni e 203mila lavoratori e lavoratrici part-time rilevati dall’Istat nel 2022, il 56,2%, non ha scelto questa forma contrattuale ma l’ha accettata o subita per necessità o per assenza di altre possibilità, ovvero è in una condizione di part-time involontario. Un andamento strutturale e non congiunturale che il documento ‘Da conciliazione a costrizione: il part-time in Italia non è una scelta. Proposte per l’equità di genere e la qualità del lavoro’, presentato oggi al Senato, fa emergere scattando una fotografia a 360 gradi del fenomeno, avanzando proposte di policy per migliorare la qualità del lavoro e includendo le interviste anonime a cinque lavoratrici. L’analisi dei dati, mostra che tra le donne, che rappresentano circa i tre quarti delle persone occupate a tempo parziale è più diffuso anche il ricorso al part-time involontario: pesa infatti per il 16,5% sul totale delle donne occupate contro il 5,6% degli uomini occupati. Dalle elaborazioni emerge che sotto ogni profilo, socio-demografico, territoriale, di tipologia contrattuale o di settore le donne sono più colpite degli uomini dal fenomeno del part-time involontario. Tra le persone impiegate in professioni non qualificate si registra il differenziale maggiore: 38,3% per le donne contro il 14,2% gli uomini. Il part-time involontario, inoltre, è più frequente tra le giovani donne: si parla del 21% delle occupate di 15-34 anni rispetto al 14% di quelle di 55 anni e oltre.
Oltre alla caratterizzazione di genere, i dati mostrano che il part-time involontario è più frequente anche nel Mezzogiorno, tra le persone straniere, tra chi possiede un basso titolo di studio e tra le persone con un impiego a tempo determinato: 23% contro il 9% del tempo indeterminato, e il 7% degli e delle indipendenti. Il paradosso italiano nell’abuso del part-time involontario è confermato anche dai dati Eurostat: a fronte di una crescita simile nel ricorso al tempo parziale a livello europeo negli ultimi 20 anni, che nel 2022 ha visto l’Italia in posizione analoga alla media europea (18,2% la prima, 18,5% la seconda), nel nostro paese il part-time involontario riguarda più di un lavoratore su due tra quelli impiegati con questa forma contrattuale (56,2%) mentre la media europea si ferma a meno di un quarto (19,7%). Ancora, l’analisi dei dati Inps sull’andamento dei contratti attivati nel primo semestre 2022, mostra una crescita del lavoro femminile all’insegna della precarietà e della debolezza contrattuale data dalla compresenza di due fattori di criticità associati: la forma precaria contrattuale e il tempo parziale, quale forma di orario ridotto. Nel primo semestre del 2022 risultano attivati 4.269.179 contratti, di cui solo il 41,5% a donne. La quota di contratti stabili incide per il 20% su quelli maschili e solo per il 15% di quelli femminili. Su tutti i contratti attivati nel I semestre 2022 il 35,6% è a part-time, con consolidate differenze di genere: sul totale dei contratti attivati a donne quasi la metà (il 49%) è a tempo parziale contro il 26,2% dei contratti attivati agli uomini. Inoltre, se si guarda al tempo indeterminato, che rappresenta solo il 15% dei contratti attivati a donne, oltre la metà di questa quota (il 51,3%) è a tempo parziale.
‘Ormai è noto che sempre più lavoro è precario e mal retribuito, e non è sufficiente a uscire da una condizione di povertà. In questo quadro anche il part-time da strumento di conciliazione di vita e di lavoro, rischia di diventare uno strumento di ulteriore precarizzazione, soprattutto quando viene imposto e non è una scelta del lavoratore e in particolare della lavoratrice. Uno dei segni più evidenti di come abbiamo affrontato la sfida della globalizzazione mortificando il lavoro, in particolare quello delle donne’, hanno commentato Fabrizio Barca e Andrea Morniroli, co-coordinatori del Forum Disuguaglianze e Diversità. Il documento ha voluto fotografare il part-time (involontario) anche dal lato della domanda di lavoro, ovvero analizzando i dati sulle imprese che utilizzano personale a tempo parziale tratti dalla V indagine Inapp ‘Qualità del Lavoro nella sua componente relativa alle unità locali’, condotta nel 2021. Innanzitutto si scopre che il 12% delle imprese fa un uso strutturale del part-time, ossia oltre i due terzi (70%) dei dipendenti risulta inquadrata a regime orario ridotto. Anche in questo caso, l’indagine rileva che l’occupazione part-time è una questione prevalentemente femminile: nel 61,5% delle imprese le persone occupate part-time sono quasi esclusivamente o esclusivamente donne, mentre nel 20% la quota di lavoratrici part-time supera, anche ampiamente, la metà. Solo nel 17,3% dei casi si registra la presenza di lavoratori part-time uomini superiore alla componente femminile. Dai dati si osserva inoltre che rispetto alla totalità delle realtà produttive italiane di riferimento, quel 12% che ha un utilizzo strutturale dello strumento del part-time (oltre il 70% sul totale dei dipendenti) ha una probabilità maggiore di operare nel Sud e nelle Isole. Tale tipologia di imprese si caratterizza per un forte ricorso a contratti atipici. Un altro dato interessante riguarda la polarizzazione rispetto alla dimensione d’impresa. Tali realtà produttive presentano infatti probabilità maggiori di essere microimprese (meno di 5 addetti) e imprese di grandi dimensioni con oltre 250 addetti. Rispetto alla gestione delle risorse umane, i dati evidenziano che le imprese in cui l’utilizzo del part-time è strutturale presentano la probabilità inferiore di rientrare nel cluster delle imprese definito ‘smart’, caratterizzate da un’elevata qualità del lavoro, mentre presentano una buona probabilità di rientrare nel cluster ibrido in cui il grado di tutela e partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici risulta essere nettamente inferiore. Si tratta di imprese che presentano una bassa propensione all’utilizzo di strumenti di flessibilità a supporto dei lavoratori e delle lavoratrici, così come all’introduzione di azioni per favorire il lavoro agile, probabilità inferiore di svolgere attività formative per chi lavora e una bassa responsabilità verso la conciliazione lavoro-vita privata. Colpisce inoltre che vi sia una bassissima probabilità che in queste imprese siano presenti rappresentanze sindacali (RSA – RSU). Similarmente colpisce che tra i temi di contrattazione di secondo livello, il tema dell’orario di lavoro, tra queste imprese, sia scarsamente preso in considerazione. Inoltre, i dati evidenziano chiaramente che nel settore della grande distribuzione e nel settore dell’alloggio e ristorazione la concentrazione di unità locali che presentano un ricorso strutturale al part-time è nettamente maggiore se comparata alla distribuzione complessiva.
Dai dati analizzati nel documento emerge quindi con chiarezza come in Italia la diffusione del part-time sembra più dovuta alle esigenze delle imprese di ridurre il costo del lavoro che a quelle dei lavoratori e delle lavoratrici. Il fenomeno si può correlare agli interventi normativi, che hanno favorito la flessibilizzazione del lavoro. Anche la legge 81/2015, conosciuta come Jobs Act, è andata in questa direzione: le clausole elastiche introdotte a ‘corredo’ del part-time, come il lavoro supplementare e il lavoro straordinario, permettono di aumentare e diminuire l’orario di lavoro del contratto part-time trasformandolo ‘di fatto’ in full time all’occorrenza in presenza di picchi di lavoro. Di fronte a questo quadro sono tre le possibili aree di intervento individuate dal gruppo di lavoro. Contrattazione: associare il part-time al tempo indeterminato, migliorare gli strumenti per la tutela contrattuale, prevedere che i contributi previdenziali di chi lavora part-time costino di più, costruire una gradualità nella quota progressiva del costo contributivo a carico del datore di lavoro. Disincentivi alle forme involontarie di part-time: inserire un sistema di denuncia per il lavoratore o la lavoratrice, costruire una politica di incentivazione per la trasformazione da contratto part-time a contratto full time. Aumento dei controlli: aderire alla raccomandazione europea che prevede l’aumento degli ispettori del 20% monitorando le clausole concordate nella contrattazione, i contributi annui sufficienti a raggiungere la soglia, le ore effettivamente lavorate coerenti con quelle previste nel contratto.