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Fara. Storia di Mario, disabile 28enne: cacciato dalla scuola e senza futuro

Mario ha 28 anni e un deficit di apprendimento. Un ritardo mentale. E’ invalido al cento per cento. Ma non si è mai arreso, sostenuto con amore e tenacia dai suoi genitori. Anche perché Mario ha il dono di una grandissima socialità: gli piace stare tra la gente, tra i bambini.

Mai un comportamento aggressivo o violento. E poi, merito anche degli anni trascorsi alla cooperativa per disabili, sa fare diverse cose. E sa leggere, bene. Scrivere così così. Ma insomma, è facile volergli bene. Per oltre 5 anni ha lavorato in una scuola dell’Alto Vicentino, scuola primaria. Aiuto bidello, dava una mano dove serviva, piccoli incarichi. Prendeva uno stipendio: 180 euro al mese, per 5 giorni alla settimana, dalle 8,45 alle 12,45. Meno di un mese fa il padre di Mario è stato convocato dai servizi sociali. “E’ meglio che tenga a casa suo figlio, sono successe cose molto gravi. Non può più restare in questa scuola” – gli hanno detto. E perché? Cos’ha fatto di così grave? “Ci sono stati episodi di autoerotismo” – è stata la risposta.

Mario è un nome di fantasia. La vicenda no. Ed è una vicenda assai delicata, che merita d’essere raccontata senza pregiudizi. Perché ci sono delle creature da tutelare. A partire dai bimbi che frequentano la scuola, che in alcun modo devono essere messi in condizione di assistere a scene che possano turbare la loro sensibilità o condizionare la loro crescita. Ma anche Mario è da aiutare: per la sua storia, per il fardello che si porta addosso, per la sua chance di entrare, come può, fin dove può, a far parte della società. Per non essere gettato via come uno sbaglio.

Da allora Mario è a casa, piange e si dispera. Giura di non aver mai fatto nulla di male, autoerotismo è un termine difficile, nemmeno capisce cosa voglia dire, continua a ripetere che non è vero, che vuole tornare al suo lavoro, al suo stipendio. Il padre ha 70 anni e un’energia da ragazzino nel difendere suo figlio, nel voler “fare qualcosa, perché non posso vederlo ridotto così a 28 anni, dopo tutta la fatica e tutti i progressi che ha fatto”.

“Quando i servizi sociali mi hanno chiamato e detto cos’era successo non volevo crederci – racconta l’uomo, il respiro affannato, parole accalcate per l’emozione -. State scherzando? Autoerotismo? Mio figlio non sa cosa significa quella parola lì. Così gli ho risposto, a quelli dei servizi sociali. Poi ho chiesto di parlare col preside, ma non mi ha voluto ricevere. Ho provato altre volte, ma niente. E io non so chi è che accusa mio figlio, se un bambino, se qualche collega a cui magari non stava simpatico, chi lo sa, nessuno vuol dirmelo. So però che non c’è mai stata nessuna denuncia. Il problema di Mario sa qual è? Che quando non è impegnato a fare qualcosa, si mette le mani dentro la cintura dei pantaloni. Lo fa da sempre, come per riposarsi, come noi le mettiamo in tasca. Va a capire perché lo fa. E’ un gesto inconsapevole. E noi sempre a dargli schiaffi sulle mani, a dirgli toglile da lì, non sta bene, ma lui non ha la percezione che quella cosa non sta bene, non capisce che non si deve fare, anche se le assicuro, infila le mani nella cintura, non più giù, mai più giù. E’ un gesto innocente. E non sono un genitore che vuole a tutti i costi difendere il figlio, ci mancherebbe. Ho 70 anni, non sono rimbambito. Ho vissuto con lui, accanto a lui ogni passo che ha fatto. So bene quali sono i limiti di mio figlio e so che in quella scuola ci sono dei bambini. Mario non si è mai spogliato, non ha mai avuto comportamenti sconvenienti, offensivi, volgari. Mai, non ne è capace. Solo quella mania delle mani nella cintura. E’ solo questa la sua colpa. E io ci metto non solo la mano sul fuoco, ma anche il braccio, anche la testa: Mario non ha mai fatto niente di male”.

“E così è stato scaricato. Da tutti. Dalla scuola, dai suoi colleghi. Forse, come le dicevo, a qualcuno dava fastidio che lui lavorasse lì. Ora io, come padre, mi sento umiliato, degradato. Non è giusto che un ragazzo così buono venga gettato via per niente. L’altro giorno siamo andati a un saggio di danza della nipotina di nostri amici, c’erano anche alcuni bambini della scuola che sono corsi da lui. Mario, gli hanno detto, perché non vieni più a lavorare da noi? Questo è il rapporto che aveva con i bambini. Gli facevano anche dei regali, pupazzetti, disegni, a volte i confetti. Lui gli ha sorriso e non ha detto una parola”.

 “Ora Mario è disperato – conclude il padre -. Piange, non capisce. Secondo i servizi sociali dovrei portarlo al centro disabili diurno, ma Mario vuole lavorare, dice non mettermi insieme agli altri disabili, come se per lui fosse una retrocessione. Come se lui ce l’avesse fatta ad uscire da quella definizione”.

Questa la vicenda: reale e assai delicata. Fermo restando che anche la vista di una mano nella cintura dei pantaloni può dare fastidio, e molto, a un bimbo o a un genitore, nessuno sembra chiedersi cosa fare ora di Mario. Il silenzio per lui è una condanna: o a casa o al centro per disabili, dove con ogni probabilità si assisterebbe a una regressione. E’ come se mancasse un anello nella catena di assistenza pubblica per continuare a dare una mano a un uomo col cuore da bambino, per continuare in quel tentativo d’integrazione che per 5 anni, non pochi, aveva dato ottimi frutti. Allontanarlo dalla vita sociale non può essere l’unica soluzione.

di Redazione Thiene on line