a cura dello Studio Gastaldi
La coltivazione di una piantina di cannabis nel cortile di casa, in assenza di altri elementi che possano dimostrare un’attività di spaccio, dimostra l’uso esclusivamente personale. Ciò anche se la piantina è alta 1,60 metri e se ne possono ricavare 160 dosi di sostanza stupefacente. Lo precisa la sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 11901/2023 (sotto allegata).
A ricorrere al Palazzaccio è l’imputato avverso la sentenza della corte d’appello di Napoli che, in sede di rinvio, dopo che la Suprema Corte aveva annullato la precedente decisione d’appello per difetto di notifica al suo difensore, riformava parzialmente la sentenza del Tribunale di Napoli Nord, riqualificando ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990, il reato di coltivazione di cannabis, aggravato dalla recidiva reiterata.
Tra le varie doglianze, l’uomo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla configurabilità del reato di coltivazione illecita. La Corte, a suo dire, non aveva considerato che si trattava di cannabis sativa e inoltre non aveva dato conto della potenzialità diffusiva della coltivazione, disattendendo i principi in materia di coltivazione domestica, in quanto si trattava di una sola piantina, altra m. 1,60, messa a dimora nel cortile dell’abitazione, in assenza di strumentazione e di accorgimenti particolari o di collegamenti con il mercato degli stupefacenti, essendo oggettivamente desumibile la destinazione ad uso personale. Né in senso contrario avrebbe potuto deporre il rinvenimento di due tritaerba, costituenti strumenti che assolvono a finalità di autoconsumo.
Per la S.C. il motivo è fondato e assume rilievo assorbente.
Deve rilevarsi, affermano innanzitutto, i giudici di legittimità che, “sul complesso tema dell’inquadramento dell’attività di coltivazione e sul rapporto tra tale attività e destinazione ad uso personale della sostanza stupefacente ricavata è intervenuta una significativa pronuncia delle Sezioni Unite (cfr. n. 12348/2019), che costituisce un decisivo parametro di valutazione. Le Sezioni Unite hanno posto al centro dell’analisi il profilo della tipicità, escludendo che potesse dirsi decisiva la mera destinazione soggettiva ad uso personale e dando invece rilievo al profilo oggettivo-strutturale, correlato alla compresenza di plurimi elementi, che devono convergere nel senso dell’esclusione del reato”.
In particolare, “è stata valorizzata la prevedibilità della potenziale produttività, quale parametro che consente di distinguere fra coltivazione penalmente rilevante, dotata di una produttività non stimabile a priori con sufficiente grado di precisione, e la coltivazione penalmente non rilevante, caratterizzata da una produttività prevedibile come modestissima”.
E’ stato però sottolineato, aggiungono dal Palazzaccio, “che tale parametro, per poter operare con sufficiente certezza, deve essere ancorato a presupposti oggettivi – in parte già individuati dalla giurisprudenza – che devono essere tutti compresenti, quali: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti, l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore, essendo per contro insufficiente la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l’intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale”.
Nel caso di specie, alla luce di tali principi, gli elementi, pur valutati congiuntamente, per la S.C., dunque, “non convergono nel senso della riconducibilità all’ipotesi della coltivazione tipica, penalmente rilevante, in senso contrario deponendo, secondo quanto condivisibilmente sottolineato dalla difesa, l’assenza di indici che consentano di ipotizzare un concreto collegamento con il mercato degli stupefacenti, a fronte di un’oggettiva destinazione all’uso personale, la rudimentalità dell’attività di coltivazione, risolventesi nella messa a dimora di un’unica piantina, dalla limitata sfera di produttività, non tale da rendere concretamente prospettabili margini di imprevedibilità e da oltrepassare la sfera di quell’oggettiva destinazione, di per sé non contraddetta dal principio attivo in atto ricavabile da quella piantina”.
Né, infine, “è dato comprendere come possa diversamente inquadrarsi il rinvenimento di due trita-erba”.
Conseguentemente, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.