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La guerra in Afghanistan vista a vent’anni di distanza

di Giacomo Stiffan (fonte The Wise Magazine)

Nel 2001 ero un diciottenne politicamente piuttosto acerbo.
Non avevo un pensiero particolarmente definito, così nei dibattiti che a quella santa donna della professoressa Mara Zanella piaceva improvvisare in classe mi collocavo talvolta di qua, talvolta di là. Anzi, per onestà intellettuale, erano più le volte in cui mi collocavo “di là” rispetto a quanto farei ora.

La prof. Zanella era eccezionale. Insegnava italiano in un istituto tecnico di provincia, eppure guai a sottovalutare la sua determinazione nel fare bene il suo lavoro. Il suo obiettivo era farci ragionare con la nostra testa mettendo alla prova le nostre idee, tra di noi, con dei civili ma bollenti dibattiti che lei si limitava a moderare (e talvolta a carburare, quando mancava il necessario pepe). Fu lei a insegnarmi che cambiare idea non è né un tabù né una sconfitta, ma anzi un efficace processo di crescita personale. Di questo non gliene sarò mai abbastanza grato.

L’11 settembre a diciott’anni

Quando vidi in televisione gli attentati dell’11 settembre – come tanti, ricordo chiaramente quel momento – fu per me un fulmine a ciel sereno. Avevo diciotto anni, compiuti da poco.

L’immagine di quei puntini neri, quelle persone che si gettavano dalle Torri Gemelle scegliendo tra una morte certa e un’altra morte certa mi strappò l’anima.
Era un atto di guerra, o quantomeno, lo sembrava al giovane me stesso.

L’invasione dell’Afghanistan

Quando poi gli Stati Uniti e i loro alleati invasero l’Afghanistan alla ricerca dei responsabili, mi sembrò una semplice conseguenza di quanto sopra: tu mi attacchi, io ti vengo a cercare.
Ne parlammo, in classe, e non riuscivo a comprendere la posizione di chi era contrario all’intervento militare, tanto da sentirmi fiero che tra quegli alleati ci fosse anche l’Italia. Mi sembrava che, per una volta, la mia nazione si stesse comportando onorevolmente, che stesse facendo la cosa giusta.

Già, la cosa giusta.

A volte è utile guardarsi indietro, per rendersi conto di quanto si è cambiati.
Lo faccio ora, e riconosco l’ingenuità che offuscava il mio giudizio. Giustificata dall’età, forse, eppure ingenuità rimane.

L’idea che la vendetta fosse un buon motivo per una guerra, che la democrazia tutto sommato fosse esportabile coi carri armati e che non ci fosse nulla al mondo che potesse fermare la potenza militare dell’occidente erano dei punti fermi.

Dopotutto, noi eravamo i buoni.

Ora, onestamente, avrei molti più dubbi. Era meglio lasciare l’Afghanistan intoccato senza sacrificare migliaia di vite per niente? O, forse, è stato meglio aver dato a milioni di persone la libertà, sebbene per un periodo limitato?
È un paradosso morale che, ora che ho molte meno certezze di un tempo, non saprei risolvere.

Ciò non toglie che sia doveroso fare delle considerazioni su quanto avvenuto negli ultimi vent’anni in Afghanistan, questa volta ora che ho trentotto anni.

Dal punto di vista militare

Nessuno è mai riuscito davvero a conquistare l’Afghanistan, né gli inglesi nell’Ottocento né i sovietici negli anni Ottanta. O meglio, a conquistare l’Afghanistan ci sono riusciti in tanti: il problema è tenerlo senza che diventi un buco nero di risorse e vite umane.

I motivi sono molteplici e variano in base all’epoca, ma in particolare vanno considerati la peculiare conformazione del territorio (montagnoso, molto lontano dal mare, circondato da potenze concorrenti), la lunga esperienza nella guerriglia delle milizie locali e la triangolazione geopolitica dell’area, tale da presentare sempre e comunque qualche potenza più o meno vicina pronta a sostenere i ribelli di turno contro l’invasore di turno.

Ciò non toglie che gli americani ci siano andati dannatamente vicino. Ultimamente erano rimaste relativamente poche unità americane – qualche migliaio – fondamentalmente senza impieghi in combattimento, semplicemente in supporto all’esercito regolare afgano per fare da deterrente nei confronti dei talebani: i droni statunitensi in venti minuti potevano essere ovunque. Oggi, invece, servono almeno una decina di ore di volo.

Data l’evidente disparità di mezzi in campo (gli effettivi talebani erano nel migliore dei casi la metà dell’esercito regolare) con un po’ più di tempo, forse, l’apparato militare afgano avrebbe potuto tenersi sulle proprie gambe.
Quanto tempo? Difficile a dirsi, ma è doveroso considerare che nessuno c’era mai andato così vicino.

Per inciso, i talebani sono una cosa diversa dai mujahideen che combattevano i russi negli anni Ottanta.

Dal punto di vista sociologico

L’Afghanistan non è un monolite e questo molti consiglieri militari sembrano non averlo mai capito. Se l’allora alleanza del Nord e la popolazione delle grandi città avevano accolto a braccia aperte i liberatori occidentali, così non è stato nel resto del Paese. Il timore delle rappresaglie talebane sulla popolazione rurale (parliamo pur sempre di uno dei Paesi più poveri al mondo) è stato ampiamente sottovalutato.

Conquistare un Paese non significa controllare solo le città, e nemmeno controllare territori a macchia di leopardo da dentro a dei fortini blindati: della democrazia un contadino non se ne fa niente se il prezzo da pagare è la ritorsione dei fanatici talebani. In altre parole, quando non riesci a soddisfare i bisogni primari tuoi e della tua famiglia l’assenza di democrazia è l’ultimo dei tuoi problemi.

Considerando questo aspetto, l’azione occidentale in Afghanistan era un disastro annunciato: la democrazia non la fanno i militari, la fanno le persone.

Dal punto di vista strategico

Un’invasione a tempo determinato è e sarà sempre strategicamente insensata.
Scegliere di invadere un Paese dandosi una scadenza per andarsene ha significato dare ai talebani un obiettivo molto semplice: non è stato necessario sconfiggere in campo aperto gli occidentali, bensì è bastato sopravvivere fino a che se ne sono andati da soli. Con una spintarella, rappresentata da una costante e onnipresente guerriglia, allo scopo di alzare il costo in risorse e vite umane per gli occupanti.

Il problema ora diventa geopolitico: il deterrente militare occidentale (e soprattutto statunitense) è venuto meno.
Sul piano internazionale è devastante: pensiamo ad esempio a Taiwan, un’isola che se non fosse per il deterrente militare americano sarebbe invasa dai cinesi domani mattina.

Alla luce di quanto avvenuto in Afghanistan, gli Stati Uniti interverrebbero militarmente contro la Cina? Oggi la cosa non è più così sicura come qualche settimana fa, e la stampa cinese lo dice apertamente.

Oltre a questo, gli Stati Uniti lasciano una situazione devastante sul piano umanitario, generando un flusso migratorio mastodontico che si riverserà in principio sui Paesi vicini (soprattutto Iran e Pakistan), per poi avviarsi in buona parte verso l’Europa. Ovvero quegli stessi alleati che hanno accompagnato gli americani in quest’avventura e che ora devono raccoglierne i cocci, mentre l’America se ne torna a casa al sicuro, al di là dell’oceano. Alla luce di questo, la prossima volta gli alleati europei saranno altrettanto pronti a sostenere militarmente gli Stati Uniti? È un dubbio più che legittimo.

Dal punto di vista politico

Pensare di «esportare la democrazia» usando unicamente la potenza militare è un controsenso, specialmente in un Paese che, ad oggi, è perennemente in guerra dal 1979. Quindi, per quanto deprecabile nei contenuti, il discorso del presidente statunitense Joe Biden è di un’onestà fredda, spietata e inequivocabile: gli USA non vanno all’estero a esportare la democrazia, ma a difendere i propri interessi.
Finita la missione, si torna a casa.

Che incidentalmente questo abbia significato dare per vent’anni a milioni di donne, bambini e uomini un assaggio di libertà e l’illusione di un futuro migliore, è un fatto secondario.
E poco importa se vent’anni fa le motivazioni erano diametralmente opposte, la realpolitik non guarda in faccia a nessuno. Letteralmente a nessuno.

Alla fine però di fronte alle immagini qui sopra qualsiasi analisi viene meno. Quei puntini neri, quelle persone che cadono da aerei in fuga ad ali spiegate, costretti a scegliere tra una morte certa e un’altra morte certa, ricordano tanto ‒ troppo ‒ quei puntini che cadevano dalle torri gemelle vent’anni fa.

Un rovesciamento di ruoli davvero troppo cinico e, probabilmente, un grande passo falso per il futuro internazionale degli USA. Cui, lo abbiamo capito, degli afgani non interessava poi molto fin dall’inizio.