In Italia sette lavoratori su 10 nel settore domestico sono stranieri e infatti un terzo dei residenti filippini, ucraini e peruviani sono colf o badanti. Lo si evince da uno studio dell’Osservatorio sul lavoro domestico dell’associazione Domina, grazie ad una fornitura di dati personalizzata Inps, nel VI Rapporto annuale. Nel Bel paese nel 2023 i lavoratori domestici stranieri rappresentano il 68,9% del totale, e la percentuale sale al 72,7% se si considerano solo i contratti di badante. I lavoratori domestici stranieri sono quasi 575.000, di cui il 52,4% si occupa di assistenza alle persone (badanti). Infine, incrociando i dati relativi ai lavoratori domestici con la popolazione attività per ciascuna nazionalità, si osserva l’incidenza del lavoro domestico per ciascun gruppo etnico. L’analisi dei paesi di origine dei lavoratori domestici evidenzia come quasi la metà dei lavoratori domestici “stranieri” provenga da tre nazioni. La prima è la Romania (123.000, 21,3% del totale stranieri), il secondo paese più rappresentato è l’Ucraina, con 90.000 lavoratori (15,6%), seguito dalle Filippine con 63.000 (11%). Seguono gli altri paesi di provenienza; il 6,3% dei lavoratori domestici stranieri in Italia proviene dal Perù (36.141), mentre il 5,7% dalla Moldavia (32.573). Sotto le 7.000 unità paesi come la Bulgaria, Senegal, Russia o Nigeria. La tipologia di lavoro domestico sembra essere correlata con la provenienza, ovvero in base alla nazionalità cambia anche la tipologia di lavoro domestico: il ruolo di “badante” è maggiormente presente tra i Paesi dell’Est Europa, come Georgia (84,9%), Bulgaria (74,1%), Ucraina (67,2%) e Romania (63,2%).

Al contrario, si registra una netta prevalenza di “colf” per i lavoratori provenienti dal Pakistan (85,4%), dalle Filippine (83,8%) e dal Bangladesh (82,3%). Rispetto al 2022 i lavoratori domestici stranieri sono diminuiti del 7,6% e si registra una contrazione in quasi tutte le nazionalità. Tra i principali Paesi d’origine, l’unico a riportare una crescita è la Georgia (+3,6%). A diminuire in modo notevole sono Albania (-14,1%), Marocco (-13,9%), Bangladesh (-42,3%) e Senegal (-31,8%). In questo caso, come documentato nel rapporto annuale Domina, il calo è probabilmente dovuto ad un “rimbalzo” fisiologico seguito agli aumenti legati alla regolarizzazione del 2020. Tuttavia, per comprendere quanto il lavoro domestico incida per ciascuna nazionalità, è opportuno rapportare il numero di lavoratori domestici con la popolazione residente. In questo caso va precisato che i dati fanno riferimento ai soli cittadini stranieri, per cui sono esclusi i naturalizzati italiani. Rimane così evidente come il peso del lavoro domestico sia molto variabile: ad esempio, i cittadini romeni sono oltre un milione, mentre gli ucraini 250.000 e la comunità filippina conta solo 159.000 persone. Il rapporto tra lavoratori domestici e popolazione residente indica la “propensione al lavoro domestico” per ciascuna nazionalità: Filippine, Ucraina, Perù ed El Salvador superano il 30%. Moldavia, Ecuador e Sri Lanka superano il 25%. Per le comunità più numerose, invece, l’incidenza del lavoro domestico si abbassa: è il caso della Romania (11,3%) o di Albania (5,4%) e Marocco (5,1%). Un caso particolare è rappresentato dalla Georgia, dove il rapporto tra lavoratori domestici e popolazione residente raggiunge l’86,4%.

Mediamente, considerando tutti gli stranieri in Italia, il lavoro domestico rappresenta l’11,2% della popolazione. Se invece si considerasse la popolazione italiana, il lavoro domestico rappresenterebbe appena lo 0,5%. Secondo Lorenzo Gasparrini, segretario generale di Domina, “nonostante la crescita della componente italiana, il lavoro domestico rimane un settore con una forte connotazione immigrata. Tuttavia, le comunità nazionali sono molto diverse tra loro e presentano forti specializzazioni etniche. Per il nostro Osservatorio è fondamentale realizzare la mappatura delle nazionalità dei lavoratori domestici, in modo da capire quali sono le nazionalità più coinvolte nel settore e gestire eventuali azioni di programmazione e formazione”. Tuttavia, aggiunge, “non dobbiamo dimenticarci gli oltre 200.000 lavoratori senza permesso di soggiorno stimati anche quest’anno che lavorano nelle nostre case e che si prendono cura dei nostri cari e che non si riescono ad intercettare perché invisibili alla società”.

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