di Marco Patricelli
(Agi) Il governo affidato da Vittorio Emanuele III al Maresciallo Pietro Badoglio la sera del 25 luglio è un governo di scopo e con un solo reale incarico da portare a compimento: farla finita con la guerra alle migliori condizioni possibili, salvaguardando l’istituzione monarchica.
L’unico risultato era stato lo scetticismo degli Alleati sul modo di procedere e sulla reale volontà degli italiani di chiamarsi fuori dal conflitto, e il sospetto su abboccamenti e credito degli stessi. E infatti non si era andati oltre questa fase. La caduta di Mussolini aveva provocato in Italia una reazione euforica: i simboli del regime erano stati presi di mira dalla folla, i fascisti si erano strappati dal bavero della giacca la “cimice” col simbolo del partito, ovunque si era inneggiato al Re, a Badoglio, all’Esercito, chiedendo la pace.
Il pugno di ferro di Badoglio
Da questo punto di vista la strategia della guerra aerea degli angloamericani aveva colpito nel segno quando aveva decisamente virato verso un inasprimento che avrebbe messo fretta a Badoglio diminuendo i margini del negoziato. Il Maresciallo, dal canto suo, aveva usato il pugno di ferro per reprimere scioperi, manifestazioni politiche e disordini.
Alle truppe schierate in assetto di guerra aveva fatto prescrivere già il 26 luglio di marciare con la baionetta inastata e di sparare ad altezza d’uomo «come contro le truppe nemiche». Il 28 luglio, a Bari, viene aperto il fuoco contro la folla che vuole assistere alla liberazione dei prigionieri politici: 20 morti e 38 feriti.
Nei 45 giorni del governo Badoglio ci saranno più vittime e arresti di quanti era stato capace il fascismo in venti anni. Tanto per essere chiari, quello è dichiaratamente un governo militare: ne fanno parte sei generali, due prefetti, sei funzionari e due consiglieri di Stato. I civili sono pochi, come l’esperto diplomatico Raffaele Guariglia agli Esteri, e il loro ruolo marginale sarà palese il 9 settembre, con la Fuga di Pescara, di cui non saranno neppure informati.
I partiti sono vietati, i giornali cambiano i direttori, soprattutto quelli più compromessi col fascismo, ma la linea da seguire è quella governativa. Niente libertà di stampa nonostante si inneggi alla libertà e il Partito fascista sia stato sciolto, niente associazionismo sotto nessuna forma.
La Polizia, riaffidata a Carmine Senise dopo la parentesi del gerarca Renzo Chierici, si è tolta i fascetti dal bavero sostituendoli con le stellette, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn) è stata assorbita dal Regio Esercito, così come la Divisione corazzata M addestrata e armata dai tedeschi, che su modello delle SS doveva essere la guardia del corpo del Duce: quando Mussolini è stato defenestrato e arrestato, nessuno si è sognato di intervenire per liberarlo.
L’arresto di Mussolini e il voltafaccia dei fedelissimi
L’unico colpo di arma da fuoco era stato quello della rivoltella con cui il direttore dell’Agenzia Stefani si era sparato: unico caduto per la caduta di Mussolini. Il comandante della milizia Enzo Galbiati, che aveva partecipato di diritto al Gran Consiglio e si era offerto al Duce di arrestare i “traditori” che avevano votato l’ordine del giorno Grandi, si era affrettato ad affermare la fedeltà alla Patria su quella politica ma subito dopo aveva dovuto cedere il posto al generale Quirino Armellini, e a mezzogiorno del 26 se ne era tornato mestamente a casa.
Quanto alla Divisione M che non aveva minimamente reagito al colpo di stato, il console generale Alessandro Lusana aveva dovuto a sua volta cedere il comando, nello stesso giorno, al genero del Re, il conte Carlo Calvi di Bergolo. Nonostante i tentativi di sostituire gli elementi e i reparti più politicizzati con ufficiali e soldati monarchici, l’unità resterà nell’animo fedele a Mussolini, tant’è che nell’imminenza dell’armistizio Calvi di Bergolo si esprimerà con certezza sul fatto che non avrebbe mai combattuto contro i tedeschi, nonostante fosse stata inspiegabilmente schierata a difesa di Roma nel Corpo d’armata motocorazzato del generale Giacomo Carboni.
Tutto, in questi giorni, pubblicamente e segretamente, risponde alla logica di non insospettire i tedeschi sulle trame nell’ombra per uscire da quella guerra: la pace separata era espressamente preclusa dal Patto d’acciaio e Hitler si sarebbe certamente vendicato. Badoglio ne ha terrore, e non solo lui. Nessuno sa che il dittatore tedesco, appena appreso della caduta e dell’arresto di Mussolini, ha a sua volta dato il via libera ai piani segretissimi per la neutralizzazione dell’Italia, con le buone e con le cattive. Scatta un doppio gioco degli inganni che monopolizza la lunga estate calda del 1943.