Si svolgeranno questo giovedì 5 gennaio i solenni funerali del Papa emerito Benedetto XVI, scomparso a 95 anni il giorno di Capodanno. E mentre le spoglie del 265° Papa della Chiesa di Roma sono state esposte all’ultimo saluto dei fedeli, abbiamo scelto le parole di Don Marco Pozza, originario di Calvene, da 12 anni cappellano del carcere “Due Palazzi di Padova”, dottorato in Teologia Fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, per tratteggiarne alcuni caratteri con la dolcezza e la profondità tipica del giovane prete vicentino.
Non ha mai cercato di stare simpatico al mondo: lo sapeva bene, da uomo intelligente e arguto qual è sempre stato, che sforzarsi di essere simpatici a tutti porta ad ottenere esattamente l’effetto contrario. La simpatia è una dote naturale, ognuno nasce con la sua: se la ritocchi, oppure la trucchi, si vede all’istante, da distante. Fu un uomo, Benedetto XVI (al secolo Joseph Ratzinger) che riuscì, in punta di piedi, a conquistarsi la simpatia dell’altro sforzandosi di trovare simpatici gli altri. D’indovinare tracce di simpatia nel mondo in cui visse: proprio in quel Novecento – il secolo breve, il secolo senza fine – nel quale cercò di rispondere alla brutalità dell’epoca con la nobiltà e la gentilezza del suo spirito. Tratti biografici che, nel tempo, sono divenuti tratti caratteristici di un uomo ch’era convintissimo del fatto suo: abolita la bellezza, la bellezza quella Maiuscola ch’è Dio, il mondo diventa un blocco freddo che agghiaccia la conoscenza. E la ragione potrà anche continuare a fare i suoi voli, ma non produrrà che mostri, perchè la conoscenza, senza la bellezza, è paralizzata. È stata questa, a mio avviso, la grande avventura del teologo Ratzinger, l’uomo che ha saputo elaborare una forma di teologia capace di prendere sul serio la partita della vita, senza nascondersi nella quiete di qualche cenacolo di periferia ma accettando di entrare in gioco laddove, oggi, si sta giocando la partita seria della vita umana. Lasciandosi provocare dalle domande che gli venivano rivolte dalla storia.
Attraversò il suo pezzo di storia scegliendosi la compagnia più bella: quella di Gesù di Nazareth. Più che obbligare il mondo a seguire il Cristo, confidò al mondo chi fosse Cristo per lui: l’Uomo che non delude, la direzione fondamentale della vita, la scommessa che vale la pena di tentare di giocarsi. Non obbligò alla sequela, ma dipinse – da gran pittore qual è sempre stato – le conseguenze della venuta di Cristo nel mondo: parlò di lupi ch’erano in agguato dentro la chiesa, tratteggiò il fumo che saliva dalle voragini del male, combattè (come meglio potè) le illusioni che minano alle radici l’esperienza della fede. Facendo ciò, però, seppe intravedere nella grammatica che il mondo usava nella sua produzione – dipanando temi come insuccesso, noia, amarezza, frustrazione – una nostalgia del “totalmente Altro” che poteva benissimo essere il suo modo profano per parlare di Dio, senza mai citarlo. In questo, senza fare sconti, Ratzinger mostrò d’avere avuto in dote dalla natura il fiuto di un cane per il tartufo: una volta indovinata la “falla” della proposta pagana, si giocò lì dentro la sua proposta cristiana. Con un’eleganza sopraffine che, ai miei occhi sospetti, me lo rese simpatico, di una simpatia divina: «Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione» scrisse nell’introduzione del primo volume di Gesù di Nazareth (Rizzoli). Questa immagine rimarrà, per me, il suo tratto più tipico. Testimonia la libertà, intellettuale e spirituale, di un uomo che ai suoi lettori chiese un anticipo di simpatia, dichiarandosi disponibile a restituirlo, eventualmente, in caso di delusione; ma lasciando anche intuire, però, che senza quest’anticipo, una sorta di caparra di fiducia, non si potrà mai acciuffare il nocciòlo di nessuna questione. Non solo la questione di Cristo e dei suoi segreti misteri.
Inseguendolo tra i suoi libri – una delle fonti d’ispirazione della mia teologia – mi tengo cara la lezione appresa: “Mica si può stare simpatici a tutti, anche perchè quelli simpatici a tutti, sinceramente, alla lunga diventano antipatici”. Meglio, dunque, cercare di custodire nel cuore la simpatia di Dio, tentando in tutte le maniere di farla vibrare con una suggestione tale da risvegliare anche quella assopitasi nel cuore del fratello che non crede più. Che non ha mai creduto, che forse domani crederà. Del fratello che non si è mai posto il problema Dio. È la simpatia a tutti i costi quella che, alla fine, diventa antipatica. Chi, negli anni, ha voluto mettere un Papa contro l’altro, in queste notti forse rimpiange la grande occasione perduta: quella d’avere abitato una stagione nella quale Dio s’è giocato lo Spirito in una delle sue vesti più creative e inimmaginabili. Donandoci due uomini così mistici e arditi da non cadere nel facile tranello di spartirsi la simpatia del pubblico pagante.
È la simpatia di Dio che a loro preme. Che è sempre premuta loro. (www.sullastradadiemmaus.it)