Il mondo sanitario ha affrontato un periodo terribile perché ha dovuto far fronte ad un nemico sconosciuto. La riprova è la mutevolezza e la continua evoluzione sul campo delle stesse posizioni scientifiche e delle misure organizzative che si sono susseguite nel tempo. Per fare un esempio eclatante, all’inizio dell’epidemia abbiamo “rincorso” il virus pensando che fosse agganciato esclusivamente al link epidemiologico, perché le conoscenze scientifiche di quel momento giustificavano questa posizione.
Ma, ora, a chi sarà imputata la responsabilità per eventuali contagi diffusi da chi non apparteneva ad un cluster individuato come link? E a chi sarà ascrivibile la responsabilità per contagi diffusi da chi è risultato per più di due volte negativo ai test molecolari e solo successivamente ha manifestato in maniera eclatante la malattia? All’inizio alcune imprese produttrici di apparecchiature radiologiche hanno tentato di sperimentare sistemi di Intelligenza Artificiale per facilitare l’individuazione del virus attraverso la diagnostica per immagini, ma i risultati sono stati modesti, poiché l’Intelligenza Artificiale è in grado di elaborare dati su presupposti chiari di tipo scientifico, in assenza dei quali la stessa Intelligenza Artificiale vacilla.
E ancora, sarebbero stati in grado, i piani tradizionali per le grandi emergenze, qualora elaborati per tempo, di evitare tante morti e tanti contagi? E’ possibile. Tuttavia, la circostanza che in tutto il mondo, compresi i Paesi più evoluti, si siano creati così gravi problemi di gestione della Pandemia lascia intendere che anche il più evoluto approccio sistemico non sarebbe stato comunque idoneo a contenere tale aggressività pandemica.
Date le risorse (e le conoscenze epidemiologiche) esistenti, sarebbero state in grado, le aziende sanitarie, di aggiornare efficaci e idonei piani di gestione del rischio, richiesti dall’articolo 1 commi 2 e 3 della legge Gelli, già all’inizio della pandemia? E sarebbero state in grado di reperire tutte le risorse necessarie? E, soprattutto, secondo quali linee guida?
La situazione emergenziale è stata talmente nuova e spiazzante che la stessa AGENAS, nell’espletamento della sua funzione di supporto tecnico-scientifico all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, in collaborazione con il Coordinamento rischio clinico della Commissione Salute, con il Centro collaborativo dell’OMS per il fattore umano e la comunicazione per la qualità e la sicurezza delle cure, con gli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità e con altri esperti dell’Osservatorio, si è trovata costretta, in assenza di mature proposte da parte delle società scientifiche, a lanciare una raccolta delle buone pratiche tratte dalle esperienze organizzative e clinico-assistenziali via via attivate dalle aziende sanitarie del territorio nazionale in merito alle soluzioni autonomamente individuate in risposta alla situazione emergenziale conseguente all’epidemia di covid-19.
Il S.S.N. si è, quindi, mosso, soprattutto in fase iniziale, senza univoche e consolidate linee guida in tema di percorsi clinico assistenziali ed organizzativi correlate alla emergenza COVID, linee guida che avrebbero potuto orientare i professionisti e, soprattutto, scriminarli ai sensi e per gli effetti dell’articolo 6 della legge Gelli. Per non parlare poi, per quanto concerne i profili organizzativi, della difficoltà con la quale le aziende sanitarie hanno dovuto reperire DPI, ventilatori, monitor e centraline, caschi per la ventilazione, perfino guanti e camici.
In questa situazione una sana abitudine a processi di infection control, già avviati prima della pandemia, sarebbe stata sufficiente ad evitare il disastro? E in un SSN per il quale da anni parliamo della necessità di integrazione tra professionisti presenti sul territorio, professionisti ospedalieri, necessità di presa in carico di pazienti fragili con comorbilità sarebbe stato possibile evitare ritardi nei soccorsi e nelle diagnosi? E che preparazione aveva il personale delle RSA, delle case di riposo, dei centri per l’immigrazione per evitare la diffusione del nuovo virus?
Sicuramente alcune regioni hanno avuto la capacità di reagire con maggior efficienza, sfruttando, tuttavia, un gap temporale che, ancorché breve, le ha favorite rispetto ad altre zone del paese “sorprese” dall’improvviso e devastante effetto tzunami che ha colpito di più dove si è prima manifestato con violenza inaudita. Probabilmente il mondo sanitario ha fatto sbagli, ma siamo certi che questi sbagli fossero davvero tutti prevedibili, prevenibili ed evitabili?
Con oltre 30.000 morti, quanti saranno i conflitti in aule di tribunali, che trascineranno professionisti e aziende in una possibile spirale senza fine? Il Paese deve ripartire e ha bisogno di solidarietà ed alleanze.
Questo – ed esclusivamente questo – è il senso della proposta che Federsanità ha avanzato per prima (“Coronavirus e responsabilità professionale. Serve una norma che “metta in sicurezza” operatori e Asl da richieste di risarcimenti e conflitti giurisdizionali”, con M. Hazan in Quotidiano Sanità del 10 marzo 2020) circa la rivisitazione dello stesso concetto di colpa contrattuale ed extracontrattuale sotteso alle complessive previsioni di cui all’articolo 7 della legge Gelli, alla luce delle circostanze straordinarie nelle quali le aziende e i loro professionisti si sono trovate ad agire, con lo scopo di non subissare il SSN (cioè le aziende sanitarie) – e i suoi professionisti – di denunce e richieste risarcitorie, in grado potenzialmente di svuotare le casse del SSN, visto che i risarcimenti sono a carico delle stesse aziende, con il rischio di attivare poi azioni di responsabilità/rivalsa verso gli stessi professionisti, in una contesa decennale, perché tale è la durata della prescrizione nella forma della responsabilità contrattuale.
L’assenza o la tardività della rivisitazione della categoria della responsabilità per malpractice, da connotare in stretta aderenza alla straordinarietà dell’evento pandemico, rischia altresì, al contempo, di favorire la fuga degli operatori economici da un mercato assicurativo già in difficoltà o, comunque, di incrementare a dismisura l’ammontare dei premi, sempre a carico della collettività, in quanto a carico del Fondo Sanitario Nazionale destinato alle cure.
Peraltro, le recentissime previsioni contenute nel comma 2 dell’articolo 21 del D.L. 16-7-2020 n. 76 in materia di misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale (“Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta.
La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”), pur facendosi carico della speciale istanza di necessario ridimensionamento dei confini della responsabilità in epoca COVID, dispiegano un intervento legislativo che rimane, comunque, parziale e, per certi effetti, insufficiente, se non, addirittura, squilibrato.
La suddetta disposizione, contenuta nel citato articolo 21 rubricato in termini di (mera) “Responsabilità erariale”, copre, infatti, un campo comunque limitato e settoriale in quanto circoscritto alla specifica finalità di stimolare l’azione della macchina amministrativa pubblica, spesso bloccata dai timori dei pubblici funzionari di cadere nelle maglie della Corte dei Conti, ponendosi, in tal senso, al di fuori di un più organico e trasversale approccio volto alla complessiva rivisitazione della categoria della responsabilità per malpractice.
Inoltre, considerando che, ai sensi del comma 5 dell’articolo 9 della Legge Gelli, l’applicazione di detta disposizione avrebbe, perifericamente, un impatto anche sulle azioni di rivalsa verso gli operatori sanitari pubblici, la stessa previsione, nell’attuale versione, avrebbe l’effetto, per certi aspetti paradossale, di “discriminare” la posizione degli “operatori sanitari dipendenti delle strutture private” che – contrariamente ai suddetti operatori “pubblici” temporaneamente esentati da colpa grave per condotte commissive ai sensi della citata norma – continuerebbero, invece, a rispondere in rivalsa anche in termini di colpa grave, nonostante la sostanziale parificazione delle responsabilità in sede di rivalsa prospettata dallo stesso articolo 9 della Legge Gelli, ai sensi del combinato disposto del comma 1 e del menzionato comma 5.
Più in generale, almeno agli effetti della questione in argomento, la disposizione di cui sopra appare insufficiente anche in considerazione della circostanza che, da un lato, risulta applicabile limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del decreto, lasciando, quindi, scoperte proprio le fattispecie temporalmente imputabili al periodo più critico, e, dall’altro, non considera assolutamente l’ulteriore e pregiudiziale aspetto del rilievo critico della responsabilità contrattuale ascritta alla struttura e, quindi, a carico del Fondo sanitario. In altre parole, il contrario di quello che serve per ricreare un generale clima di fiducia e solidarietà.
Il recente rapporto di med-mal di Marsh Italia, che fa riferimento al periodo di denuncia 2004-2018, riserva una sezione alle infezioni ospedaliere: un fenomeno frequente ed economicamente rilevante non solo per quanto riguarda il numero di sinistri, ma anche e soprattutto in relazione ai costi, con un liquidato medio di 101.500 euro, ben oltre la media di riferimento. E certo il Covid è stato ben più grave di qualunque infezione ospedaliera già nota e, quindi, controllabile e prevenibile.
Il mondo sanitario rischia, quindi, di affrontare la grande partita della responsabilità professionale sanitaria senza alcuna protezione, con oneri rilevanti in termini economici e conflittuali, e in un contesto di forte indebolimento di quel principio di alleanza che solo avrebbe potuto salvarci: alleanza tra cittadini e mondo sanitario, che ce l’ha messa tutta per salvare un Paese e che, come tutti gli altri Paesi del mondo, e forse molto meglio, ha affrontato e superato una partita difficile; alleanza tra le componenti interne alle aziende, che, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno lavorato spalla a spalla, per affrontare le criticità nelle quali ci siamo imbattuti.
Dovremo affrontare questa eccezionale situazione, connotata dalla straordinarietà e imprevedibilità di tale sorprendente e violenta ondata pandemica, senza, tra l’altro, che siano stati ancora emanati alcuni strategici provvedimenti attuativi della Legge Gelli, già ritenuti fondamentali in “tempo di pace” e ora, in questo frangente emergenziale, ancor più indispensabili.
Mi riferisco, in primo luogo, ai decreti attuativi della legge Gelli in materia assicurativa, concepiti a suo tempo sia per cercare di regolamentare un mercato, quello assicurativo del med-mal, che aveva visto la defezione dei principali operatori, sia per regolamentare le c.d. misure analoghe, in caso di assenza o di parziale copertura da parte dell’ assicurazione, fondamentali ora più che mai, atteso che l’impatto del fondo rischi e del fondo di messa a riserva sul bilancio delle strutture non potrà essere certamente banale, in quanto, data la situazione del mercato assicurativo, l’ipotesi più probabile per la maggioranza delle stesse, nella migliore delle ipotesi, sarà la scelta di una soluzione mista, con assicurazione per i sinistri di maggiore entità, a fronte di elevati premi, e rilevanti franchigie o Sir al di fuori della soglia assicurata.
Dovremo affrontare questa situazione emergenziale senza, in secondo luogo, la predisposizione, con decreto del Presidente della Repubblica, della, tanto attesa, specifica tabella unica su tutto il territorio della Repubblica per il danno non patrimoniale per lesioni di non lieve entità, in attuazione di quanto disposto dalla legge c.d. concorrenza (L. 4 agosto 2017 n 124).
Il fine dichiarato dalla legge, nel caso di specie, è quello, da un lato, di garantire il diritto delle vittime dei sinistri a un giusto ristoro del danno non patrimoniale effettivamente subìto e, dall’altro, di comunque razionalizzare i costi “assicurativi” gravanti sui consumatori, come avviene nei sistemi obbligatoriamente assicurati (ad esempio per la circolazione stradale), dove è necessario un adeguato contemperamento di interessi, quello del giusto ristoro delle vittime e quello della complessiva sostenibilità del sistema a garanzia dell’interesse pubblico (nel caso della circolazione, l’interesse pubblico alla mobilità), tanto più che, come già sottolineato, sia i costi per i premi assicurativi che quelli per i risarcimenti gravano sullo stesso fondo del SSN destinato alle cure.
Probabilmente, in quest’ultima prospettiva, la strada migliore per affrontare una situazione di tale portata in campo sanitario è proprio quella di consolidare a regime ed ulteriormente sviluppare in conformità con gli specifici parametri della presente emergenza COVID tipologie di ristoro di tipo indennitario, che esaltino il valore della solidarietà sociale e l’importanza di una rinnovata alleanza tra paziente e SSN insita nella mediazione tra il fondamentale interesse all’adeguato ristoro delle vittime e quello, altrettanto fondamentale, di mantenere vivo e solido il Servizio Sanitario Nazionale, impedendone, a legislazione vigente, il sicuro default.
Questa, del resto, è stata la strada intrapresa dal D.L. 17 marzo 2020 n 18, con l’istituzione un fondo destinato all’adozione di iniziative di solidarietà a favore dei familiari degli esercenti le professioni sanitarie e operatori socio-sanitari, impegnati nelle azioni di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, che durante lo stato di emergenza abbiano contratto, in conseguenza dell’attività di servizio prestata, una patologia alla quale sia conseguita la morte per effetto diretto o “come concausa” del contagio da COVID-19.
Inoltre, lo stesso D.L. Rilancio, convertito in legge, ha esteso i benefici di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 23 novembre 1998, n. 407 (“Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata”), relativi al collocamento obbligatorio, con precedenza, rispetto ad ogni altra categoria e con preferenza a parità di titoli, a chi ha subito una invalidità permanente, al coniuge e ai figli superstiti, ovvero ai fratelli conviventi e a carico qualora siano gli unici superstiti, dei soggetti deceduti o resi permanentemente invalidi appartenenti alla categoria di medici, operatori sanitari, infermieri, farmacisti, operatori socio-sanitari nonché lavoratori delle strutture sanitarie e socio-sanitarie impegnati nelle azioni di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, che, durante lo stato di emergenza deliberato dal Consiglio dei ministri il 31 gennaio 2020, abbiano contratto, in conseguenza dell’attività di servizio prestata, una patologia alla quale sia conseguita la morte o un’invalidità permanente per effetto, diretto o come concausa, del contagio da COVID-19.
Tuttavia i suddetti interventi emergenziali non bastano. Unitamente, come detto, alla non più rinviabile attuazione, a regime, delle citate misure previste dalla Legge Gelli e ad una generale e trasversale revisione del perimetro della ivi prevista categoria giuridica della “colpa” – revisione da ancorare strettamente alla valenza vincolante dello stato emergenziale, senza, pertanto, comodi scudi generalizzati e deresponsabilizzanti – occorre, in una prospettiva organica di tutela della popolazione vittima della pandemia, intraprendere la strada della creazione ed implementazione di uno strutturato fondo di solidarietà, distinto e separato rispetto all’ordinario Fondo sanitario, con l’individuazione di cluster specifici, sulla falsariga di quelli già usati in passato a seguito di eventi catastrofali.
Senza sconti e facili vie di uscita – sia rispetto ad eventuali responsabilità politiche sia rispetto a responsabilità gestionali connotate da inescusabili e quindi inaccettabili condotte od omissioni – la tensione del sistema deve volgere ad un sapiente e rinnovato equilibrio tra le sacrosante istanze della tutela della utenza e degli operatori e la parimenti indefettibile e necessaria “sostenibilità” del Sistema Sanitario – e, più in generale, del Sistema Paese – in una nuova declinazione e superamento dei canonici paradigmi della “responsabilità” verso quelli della “solidarietà sociale”.
Tiziana Frittelli
Presidente di Federsanità