Quasi come in un acquario o dentro le gabbie dei circhi oppure negli zoo, quel poco di spazio in più. Aria aggiuntiva ed erba e gente che all’orario ti porta da mangiare, all’orario in orario. Per tutto quello che ti serve ci sono i turni. Per respirare amore ci sono le organizzazioni. Per fare vibrare il cuore giorni prestabiliti dalla sentenza. Poi ogni tanto vengono a darti gli extra orario, qualche nocciolina in più: sono elastiche alcune, comprensive, collaborative, elargitorie, fanno concessioni. E allora scattano gli extra se stai buonino, se non chiedi troppo, se non dici troppo spesso che sei il padre, identicamente come lei è la madre, con o senza ordinanza del giudice. Qualche giorno in più non previsto per iscritto, qualche sciopero a scuola, il ponte fra due festività, la febbriciattola che ti concede 12 ore in più con loro. Come uno scroccone dell’amore.
Ma loro chi? Dipende. Per papà innamorati è un rapporto viscerale che l’ultima cosa che vorrebbe è essere interrotto da mani terze. Loro sono i figli. Quelle creature senza prezzo né appartenenza che sono perché esistono e non appartengono che alla vita e spesso a stento anche ad essa. Creature che si cibano d’amore e comprensione, che vivono di sguardi sfuggenti di approvazione o rimprovero. Esseri con la manopola della sensibilità al massimo che va affievolendosi e calando quando il tempo passa e subentra la disillusione della “maturità”, i “ritmi”, l’”età adulta” e tutto l’armamentario previsto per sentire spesso solo l’eco dei sogni e un pallido vibrare di emozioni in lontananza. I figli.
Ai papà separati amorevoli, buoni, innamorati in pratica mancano sempre. Come alle mamme con le stesse virtù. E non c’è differenza. Se hai cambiato pannolini, preparato e dato pappe, ti sei stancato come e peggio di una partitella di calcetto nella tua mezza età per le dondolate infinite, per la messa a letto, se sei morto in piccoli pezzettini dentro per alcune malattie, se ti sei annoiato con loro, se hai visto svanire un amore per la madre sotto i loro occhi e viceversa. Allora non puoi dire altro che essi sono un pezzo vivo della tua carne, del tuo cuore. E la permanenza con loro non può essere “regolata” nemmeno dalla più benevola burocrazia giudiziale, figuriamoci se dalle fisime, dal rancore, dalle ripicche di chicchessia, umana fra gli umani, con pregi e difetti risonanti dalle stesse viscere umane.
Quindi mancano. Nella quotidianità a tavola a cena, durante i compiti della scuola il pomeriggio, la mattina a colazione, mancano i giochi, a volte non mancano in verità lagne e dispetti, ma si sente il vuoto della tua funzione quotidiana. Essere lì per trasmettere quel poco o tanto che sai per l’esperienza. Il telefono con due bimbi piccoli è una maledizione necessaria. Ma lo sopportano poco e male loro e lo vivo come una protesi che bisbiglia amore a distanza, a volte nemmeno tanto percepito dall’udito. Meglio la videochiamata di ‘wazzup’ che si incastra nei ritmi che questi figli hanno o devono avere come nemmeno un direttore di banca. Ma sono i terzi a fare la differenza, chi ce li ha praticamente sempre perché è “collocataria”. Un termine burocratese che decide di vite. La “collocataria” detta i tempi. Alcune volte snaturante, eccessiva, fuori sincrono in un rapporto che vorrebbe tutto. Che vorrebbe plasmarsi e che l’intelligenza umana, maschia o femmina che sia, potrebbe molto agevolare, creando spazi, salotti della vita sereni anche a distanza, flessibilità dei ritmi, degli orari, degli impegni.
Per condividere vita e dare una famiglia benevolente che si regga ancora sui figli nonostante la rottura dei procreanti. Quindi oasi di unità per i figli, uscire per una pizza, un Mc, un cinema, fare sentire che noi ci siamo tutti per loro e, ogni tanto, dalle trincee dismesse, che possa sventolare ancora un sorriso di umana dolcezza, di antica complicità e di motivata alleanza per questi amori.
Giuseppe Scarcella