L’elemento cardine dell’attuale crisi della sanità pubblica, oltre al ritorno al definanziamento e al decentramento, nella forma post-moderna dell’autonomia differenziata, “la secessione dei ricchi” rilanciata proprio in questi giorni, è costituito dall’impoverimento, non solo numerico, del capitale umano, che ne rappresenta la risorsa più costosa, ma anche la più preziosa. La parola carenza, di organico, di ruolo, di retribuzione, di peso politico, di prestigio sociale, descrive una realtà non più accettabile.
Ma cosa è il lavoro dei medici? Un lavoro di cura, complesso e specifico, vicino a temi cruciali quali la vita, la morte, la malattia e la sofferenza, unico ed insostituibile, a dispetto di ricorrenti tentativi di ridimensionamento e fantasiose ipotesi di supplenza. Oggi noi stessi facciamo fatica a capire come e quanto sia cambiato il lavoro del medico, e soprattutto come cambierà ancora sotto i colpi di un aziendalismo che non lascia spazio per le sofferenze che siamo chiamati a vedere, diagnosticare, com-patire, talvolta guarire.
Finito il tranquillizzante contratto a tempo indeterminato, per riempire corsie vuote quanto le culle, si ricorre a medici in affitto come un bilocale, medici pensionati portati alla fonte della giovinezza, medici a gettone, medici reclutati a Timisoara come fosse Harvard, medici e basta, dissolto il capitale formativo costituito dalla specializzazione.
Il lavoro dei medici ospedalieri paga il peccato originale di costare troppo con le mancate sostituzioni, in caso di pensione o maternità, e i ricorrenti tentativi di surroga con altri operatori, mediante chapliniane alchimie, in una furia luddista che vuole cancellarlo dalla lista della spesa o pagarlo al massimo ribasso. A costo di de-strutturare definitivamente quel sistema sanitario che ancora tiene unito il Paese assicurando coesione sociale.
Oggi sul lavoro dei medici decidono tutti, tranne loro. Decidono i politici, quando impongono direttori generali, direttori sanitari, direttori di dipartimento e primari. Decidono gli economisti, che adattano agli ospedali metodi di valutazione aziendalistici. Decide il Governo che effettua tagli lineari e indiscriminati su organici e carriere. Decidono le Regioni ritardando un CCNL i cui incrementi economici sono totalmente sfasati rispetto ai ritmi inflattivi.
Insieme con il drastico peggioramento delle condizioni del lavoro pubblico, c’è il declino del prestigio sociale, del ruolo e della identità professionale dei medici, testimoniato dalla crescita delle aggressioni, verbali, fisiche, e legali, dal deserto prodotto dalla carenza e dalle fughe, dalla marginalità del sindacalismo medico, dalla trasformazione dei luoghi di lavoro in cui avanzano altre professioni.
I confini sui quali si è costruita la cultura dei diritti sono stati spazzati via dalla crisi economica ieri, dalla pandemia e dalla guerra, oggi, o dall’alibi che hanno costituito, portando alla vittoria chi offre mano d’opera fuori dalle regole, anche ad alto costo purchè al di fuori del rapporto di impiego pubblico. Il boom delle cooperative in sanità, forma moderna dell’antico privato, esprime un dumping salariale che spinge a fuggire dalla dipendenza per poi, magari, rientrare come cottimista di lusso, nella totale assenza di regole e requisiti. Ciò che vale per il pubblico, infatti, non vale per il sistema cooperativistico.
Il lavoro negli ospedali è oggi vissuto come sofferenza, causa di profondo disagio psicofisico e lo status di medico ospedaliero a tempo indeterminato non è più la meta agognata dai giovani.
In una prospettiva di sanità povera per i poveri, e per chi lavora al suo interno, i pazienti non sono più persone con problemi sanitari ma una pila di cartelle cliniche, ed i medici prestatori d’opera, numeri chiamati a produrre altri numeri per improbabili obiettivi che fanno la gioia solo delle tasche dei direttori generali.
Il ruolo dei professionisti nel rapporto con le organizzazioni è diventato quello di operaio salariato con la negazione dei valori professionali o la loro sottomissione al primato delle logiche gestionali. La fragilità della “relazione di cura” rende più debole lo stesso potere contrattuale. Nel trionfo della medicina di carta, che assorbe i 2/3 del suo tempo, il medico vede svilita la sua prestazione in merce e bene di consumo.
L’attacco al modello ospedale-centrico è diventato attacco al lavoro negli Ospedali, tagliando i letti per tagliare i medici. E riducendo gli ospedali a quinte teatrali, fino a livelli organizzativi “minimi”, che non riescono a fare di un ospedale un ospedale, ancorchè in regola con le normative antisismiche e arredati con attrezzature moderne, grazie ai soldi del Pnrr. Il DM71 è ancora figlio di una “logica a silos”, speculare e opposta al Dm 70. Dalla deospedalizzazione si passa alla ospedalectomia. L’allungamento delle liste d’attesa e il sovraffollamento dei Ps sono espressione di una crisi di sistema, simbolo del fallimento di politiche sanitarie recessive, dramma quotidiano che cittadini e medici devono affrontare su fronti opposti. L’ospedale è diventato un luogo dove è difficile entrare, ma ancora più difficile uscire.
A fronte della invadenza e prosopopea di una cultura manageriale che tutto riduce a fattore produttivo, deve cambiare la matrice gestionale ed organizzativa per restituire la sanità ai medici e i medici alla sanità e ridefinire i processi decisionali nelle aziende. Il lavoro è fattore di cambiamento se ripensato per recuperare l’autonomia perduta nel leggere e decidere le necessità del paziente, sfuggendo a una invadenza amministrativa che sottrae tempo alla assistenza e relega il rapporto con il paziente a realtà virtuale, magari grazie alla telemedicina. “Deve mantenere l’autorità sul lavoro chi il lavoro lo fa, non chi campa sul lavoro altrui” (Annarosa Buttarelli).
La pandemia ha dimostrato che occorre ripensare gli spazi ma anche la organizzazione della logistica e del lavoro negli ospedali, questione tanto più urgente quanto piu massiccia è la ondata delle donne mediche, un processo che non è neutro rispetto ai modelli organizzativi e contrattuali. Ma occorre un nuovo paradigma che investa sul lavoro professionale per rendere esigibile il diritto unico ed indivisibile alla tutela della salute. Rilanciando la cultura del tempo clinico, tempo di relazione e tempo di cura, e il valore dell’atto professionale insieme con il senso del nostro ruolo.
Dobbiamo ripartire dal lavoro, e presto, se vogliamo garantire il suo ed il nostro futuro, con idee e proposte radicali. Cominciando con il mettere in discussione tipologia del rapporto di lavoro e durata dell’orario di lavoro, a fronte della crescita di esperienze che ne sperimentano la riduzione a parità di salario. Se non possiamo lavorare meglio lavoriamo meno.
Un dato appare certo. Non usciremo dalla crisi uguali a come ci siamo entrati. Anzi, non ne usciremo affatto finchè rimarremo uguali a come siamo entrati.
Costantino Troise