La maggiore autonomia prevista dall’articolo 116 Cost. differisce da quella delle regioni a statuto speciale, per almeno tre ragioni:
1) la maggiore autonomia è deliberata in base ad una “legge ordinaria”, seppure rafforzata (è richiesta la maggioranza assoluta delle Camere), e, quindi, senza lo speciale meccanismo procedurale tipico della “legge costituzionale”, con cui si approva lo statuto di dette regioni, connotato da un diverso sistema di discussione a maggioranza qualificata e dalla eventuale attivazione della consultazione referendaria;
2) può intervenire in tutte le materie di legislazione concorrente dell’art. 117 (come sta avvenendo per le intese della Lombardia e Veneto) e in tre materie di legislazione esclusiva dello Stato (organizzazione della giustizia di pace, norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e in dei beni culturali);
3) non può essere revocata unilateralmente, a differenza di quanto può avvenire con uno Statuto approvato con legge costituzionale.
Gli Accordi preliminari con le regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto presentano contenuti in gran parte sovrapponibili. Si stabilisce che l’approvazione della legge debba avvenire, sulla base di intesa fra Stato e regione e “su proposta del Governo”, in conformità al procedimento per l’approvazione delle intese tra lo Stato e le confessioni religiose, di cui all’art. 8, terzo comma, della Costituzione, ovvero con legge meramente “formale”.
A fronte delle richieste di maggiore autonomia, avanzate in misura più ampia da Lombardia e Veneto, in assenza di un intervento legislativo organico sul procedimento di approvazione, si sta discutendo in dottrina tra le due tesi opposte: quella di chi ritiene che il Parlamento debba limitarsi ad un mero recepimento tecnico delle intese tra Governo e Regioni (legge meramente “formale”, nonostante interventi delle intese di rilevante innovazione per l’ordinamento) e quella di chi ritiene che il Parlamento, in sede di approvazione, possa spingersi sino alla emendabilità dei contenuti volti a recepire l’intesa .
Appare, comunque, condivisibile la proposta di Filippo Palumbo (“Il contesto europeo del nuovo Patto per la Salute” in Qs 27 marzo 2019) per il quale sarebbe utile che il predisponendo Patto della salute, documento principe della programmazione sanitaria italiana, dedicasse una sua parte alla precisazione di quali modalità possono essere definite e condivise per l’applicazione dell’articolo 116 Cost., configurando uno schema quadro entro cui iscrivere le intese con le singole regioni interessate, visto il probabile effetto domino sull’intera sanità italiana.
Altra preoccupazione riguarda le risorse finanziarie che dovranno essere adeguate alle forme di autonomia concesse. Il finanziamento della sanità, in carico alle regioni, è una variabile dipendente del Pil regionale, con, allo stato, una redistribuzione verticale dei residui fiscali per garantire i Lea sul territorio nazionale, attraverso una perequazione interregionale.
Le intese prevedono che le risorse per le maggiori autonomie saranno stabilite da una Commissione paritetica Stato-Regione, che sarà tenuta a rispettare i seguenti principi: compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale (è da sottolineare che le tre Regioni insieme assommano il 40% del Pil nazionale); le risorse dovranno consentire il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche attribuite.
In una fase iniziale, ci si baserà sulla spesa storica già sostenuta per le funzioni attribuite; poi, entro cinque anni dall’approvazione delle intese, tali risorse saranno stabilite sulla base di fabbisogni standard, misurati in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali.
Inizialmente, Lombardia e Veneto hanno cercato di rivendicare parte dei residui fiscali. Le regioni richiedenti il regionalismo differenziale espongono, allo stato, in termini di residui fiscali, una eccedenza tra l’entità delle spese statali erogate, sotto forma di servizi, a favore dei cittadini dei propri territori e l’ammontare delle imposte da questi ultimi pagate, eccedenza che, ad oggi, va a beneficio di quelle regioni che espongono maggiori spese rispetto alle entrate. La discussione sui residui fiscali è stata stralciata dalle intese da portare in approvazione del Parlamento.
Quindi, nel breve periodo, nulla sembra cambiare sotto il profilo della perequazione interregionale, anche se le intese non contengono regole per ipotizzare dinamiche nel tempo di fabbisogni e risorse.
Circa gli investimenti, le intese chiedono l’assicurazione di una programmazione certa del loro sviluppo, conferendo allo Stato e alla regione facoltà di determinare congiuntamente modalità per assegnare risorse (anche nella forma di crediti di imposta) disponibili sui fondi destinati allo sviluppo infrastrutturale del Paese. L’Accordo con la Lombardia, a differenza di quelli con l’Emilia-Romagna e con il Veneto, fa espressa menzione – quale oggetto di un eventuale successivo accordo – di materie di interesse delle autonomie locali, quali il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e il governo del territorio. Invero alcuni elementi in questo ambito si rilevano anche nelle premesse all’Accordo preliminare con il Veneto
E’ ipotizzabile che ciò crei una dinamica dei gettiti erariali riferibili al territorio, che produrrà risorse aggiuntive per effetto delle nuove competenze. Questo vuol dire, con ogni probabilità, la creazione di nuova ricchezza in territori già sviluppati, a tutto merito di oculate gestioni succedutesi nel tempo, che hanno prodotto eccellenti servizi a vantaggio delle popolazioni locali.
Ma quale impatto in sanità?
Le richieste di autonomia delle tre regioni in sanità vanno dalla disciplina del personale regionale, all’istituzione di un livello di contrattazione regionale, all’accesso dei medici al SSR, alla determinazione dei contratti di specializzazione, all’organizzazione delle specializzazioni mediche e sanitarie, alla ricerca, alla autonomia nella fissazione del sistema tariffario e nella determinazione delle misure di compartecipazione alla spesa sanitaria, alla governance istituzionale e del farmaco, alla sanità integrativa per Lombardia e Veneto, all’ammodernamento strutturale e tecnologico. E comunque altre 7 regioni ordinarie hanno conferito al Presidente l’incarico di chiedere al governo le trattative per ottenere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia.
A fronte di ipotizzabili (almeno in prospettiva temporale) maggiori risorse a disposizione, “il rischio è di attribuire alla condizione economica dei cittadini la capacità di influire sui loro diritti” (tra i tanti F. Pallante, Nel merito del regionalismo differenziato, in federalismi.it). Esattamente l’inverso dell’uguaglianza sostanziale garantita dall’articolo 3 della Costituzione.
E con migliori servizi, le entrate in sanità delle regioni più efficienti cresceranno anche grazie alla mobilità passiva, che peggiorerà l’indebitamento del Sud e delle Isole. Il mondo sanitario non è un mondo chiuso. Il fatto di poter contare su maggiori servizi, più bassa compartecipazione alle spese, più numerosi e meglio remunerati e, dunque, motivati professionisti, migliori situazioni strutturali degli ospedali e più innovativo parco tecnologico, farà sì che le regioni che possono avere maggiori disponibilità di strumenti godranno in via esponenziale degli effetti di una asimmetria attrattiva, con riguardo sia ai professionisti che ai pazienti, ancora maggiore di quella attuale.
Sarebbe, tuttavia, intellettualmente disonesto, non chiedersi cosa ci sia davvero dietro le richieste di maggiore autonomia per i settori che riguardano direttamente o indirettamente la gestione della sanità, da parte di regioni che, con grande senso di responsabilità e capacità di governo nei confronti delle loro collettività, hanno costruito sistemi con ottime performances. Sarebbe gravissimo non aprire un dibattito su quanto si debba fare, a livello nazionale, per risolvere problemi ormai endemici e che vanno affrontati con un piano straordinario di interventi improcrastinabile e, quanto meno, parallelo all’attuazione del regionalismo differenziato.
Vediamo gli ambiti di intervento nazionale sui quali sarebbe necessario discutere già in occasione del Patto per la Salute, per definire un cronoprogramma di interventi urgenti.
1) Tutte tre le regioni hanno chiesto maggiori autonomie in ambito formativo e di personale. Scuola e università sarebbero le materie nelle quali l’autonomia regionale risulterebbe particolarmente incisiva. Vi sarebbe maggiore disponibilità di personale ricavabile da un maggiore accesso alle scuole di specializzazione, assumendo a termine gli specializzandi. Il Veneto ha chiesto la piena gestione di tutto il personale, inclusa la regolamentazione dell’attività libero professionale e la possibilità di stipulare contratti integrativi di incentivazione, la definizione delle qualifiche impiegabili nelle cure primarie e nelle attività medico- chirurgiche di supporto, la disciplina degli incarichi conferiti con lavoro autonomo e libero-professionale, l’autonomia nell’utilizzo delle risorse per gli acquisti dai privati accreditati. Ovviamente le nuove competenze regionali in tema di gestione dei rapporti di lavoro depotenzieranno la contrattazione collettiva nazionale nel settore pubblico
Tutto questo a fronte di problemi reali che è necessario rimuovere in fretta: la rimozione dei vincoli di spesa sul personale, per la quale si sta procedendo; la programmazione della formazione delle risorse umane adeguata alle esigenze del SSN, alla quale si è iniziato a dare maggiore respiro già con la legge di bilancio; una maggiore integrazione tra esigenze del mondo universitario e di quello assistenziale; un nuovo percorso formativo degli specializzandi, al quale si sta lavorando; la rimozione dell’imbuto formativo; l’avvio uniforme di percorsi professionali innovativi degli infermieri; il rinnovo del CCNL dei medici che dovrebbe seguire logiche nuove, sia sotto l’aspetto premiale che di carriera.
2) Tutte le Regioni hanno chiesto maggiore autonomia in ambito di governance istituzionale, mentre tutto il mondo sanitario chiede da tempo una riforma del sistema che aiuti a migliorare le aree della prevenzione e dell’assistenza distrettuale.
3) E’ necessario, altresì, intervenire sulla normativa in materia di piani di rientro (che pure ha dato importanti risultati per la maggior parte delle regioni in disavanzo) sia rispetto alle misure automatiche ad oggi utilizzate, come ad esempio il blocco automatico del turn over, che finisce per peggiorare l’adempimento dei Lea (al riguardo, appare molto positivo l’intervento del Ministro a seguito del recente tavolo di verifica della regione Calabria, circa la volontà di superare il blocco del turn over, nonostante il permanere del deficit), sia rispetto a nuovi strumenti di supporto, laddove necessari, cercando di trovare soluzioni da affiancare a meccanismi sostitutivi per creare in loco un tessuto atto a garantire alla popolazione lo stato di salute alla quale ha diritto. Il deficit e le carenze nei livelli di assistenza vanno combattuti con professionalità, impegno, tecnostrutture, responsabilità, etica delle risorse pubbliche e risorse altamente qualificate. Non si possono abbandonare le aree più critiche del Paese, ma neppure ci si può rassegnare ad un uso dissennato di risorse senza nessun beneficio per la popolazione. Spiace che si punti il dito spesso solo sui manager che, purtroppo, sono solo uno degli elementi, seppure imprescindibile, di sistemi molto complessi, con leve non sempre efficaci a disposizione.
4) La governance farmaceutica, richiesta dalle Regioni, non può essere scissa da ripensamenti sull’intero sistema, come sostenuto in un intelligente contributo dal prof. Spandonaro (Governance farmaceutica. Non basta cambiare qualche regolain Qs 31 marzo 2019).
5) Occorre prendere decisioni sulla sanità integrativa. E’ un pesante costo per il sistema e, se si vuole mantenere, continuando ad investire risorse che potrebbero essere convogliate sul sistema pubblico, va quanto meno regolamentata, in un prospettiva, tuttavia, di profilo unitario e generale e non iscritto esclusivamente nell’ambito del regionalismo differenziato.
6) Va ripensato il sistema delle compartecipazioni. Anche qui il cammino è iniziato ma va portato a termine, in maniera unitaria per tutto il Paese, unitamente ad un forte impegno sull’utilizzo appropriato delle risorse.
7) Strette tra l’ambito universitario e quello scientifico sono le nuove competenze di tutte e tre le regioni in materia di ricerca scientifica e tecnologica. Attualmente, vi è una grande lontananza tra mondo della ricerca e mondo dell’assistenza
8) Il nostro parco tecnologico è tra i più vecchi d’Europa. Occorre trovare soluzioni e partnership con il mondo imprenditoriale, che consenta un rapido ammodernamento a costi sostenibili. Il SSN deve coinvolgere tutto il mondo imprenditoriale in una logica di sostenibilità (imprese farmaceutiche, dispositivi, elettromedicale) e lo deve fare con un impegno globale a livello centrale, a vantaggio di tutto il Paese.
Le discussioni sul regionalismo differenziato non possono fermarsi agli schieramenti favorevoli e contrari, ma devono procedere parallelamente ad una logica di profonda riforma delle criticità di un sistema che non possiamo permetterci di indebolire e che, quasi all’unanimità (10 regioni su 15, con esclusione delle 5 a statuto speciale), chiede maggiori autonomie per risolvere in casa problemi reali, molti dei quali comuni a tutta la sanità italiana.
Tiziana Frittelli
Presidente Federsanità Anci