Riceviamo e pubblichiamo lo sfogo della nostra lettrice, che ha inviato la seguente lettera con preghiera di pubblicazione, ricordando a tutti che su AltovicentinOnline esiste una rubrica dedicata proprio alle storie del popolo che paga le tasse
A fine luglio papà, ultranovantenne, è stato ricoverato in geriatria a Santorso per insufficienza renale e respiratoria. Gli è stato fatto un tampone in entrata, che è risultato negativo; non aveva nemmeno la polmonite che si era sospettata all’inizio.
E’ iniziato il percorso di cura, il quadro clinico era compromesso però lui, una volta ossigenato e curato con l’antibiotico, si è ripreso; il personale medico e paramedico, che fa turni improponibili anche di dodici ore filate, lo ha seguito con attenzione, questo va detto.
Abbiamo notato però che, anche se fuori dal reparto si avvisa di entrare con la mascherina, molti visitatori non la indossano, eppure lì ci sono persone in precarie situazioni di salute. La temperatura dell’aria condizionata è veramente molto bassa: inspiegabile, considerata l’età dei degenti. Venerdì 26 mia mamma e mio fratello, febbricitanti, hanno proceduto con un tampone rapido acquistato in farmacia e sono risultati positivi. Sabato abbiamo comunicato la cosa verbalmente in reparto e abbiamo chiesto che venisse fatto un tampone di controllo a papà, ma ci è stato detto che se ne sarebbe riparlato lunedì 29, in quanto al sabato pomeriggio e alla domenica i tamponi non vengono processati. Alle 5 di domenica mattina abbiamo ricevuto una telefonata e ci è stato comunicato che c’era infezione polmonare, probabilmente per una precedente ingestione di cibo che è andato a finire nel polmone destro; papà stava molto male e gli è stata applicata la maschera per l’ossigeno. Finalmente, lunedì mattina, è stato eseguito il tampone più volte richiesto: il risultato avrebbe dovuto pervenire in serata. Martedì 30 sono entrata in reparto presto, mi sembrava che papà stesse un po’ meglio. I medici sono passati verso le 10.30, ho chiesto dell’esito e mi è stato detto che era negativo. Sono uscita alle 12 per prelevare la badante, che mi dava il cambio; l’ho lasciata all’entrata dell’ospedale e sono tornata a casa. Subito dopo ho ricevuto da lei, non dal reparto, una telefonata in cui mi è stato comunicato che la stanza di papà era già sigillata.
Indignata, nel primo pomeriggio ho chiesto un colloquio con il primario, affinché mi desse queste spiegazioni: perché a papà non era stato fatto subito un tampone, quando abbiamo segnalato la diffusione del covid in famiglia? Perché non si obbliga all’utilizzo di mascherine in un reparto di fragili? Perché prima mi è stato detto che papà era negativo e poi è risultato l’esatto contrario? Perché non siamo stati avvisati che la sua stanza era stata sigillata? Il primario ha risposto di aver seguito i protocolli: il tampone viene fatto in entrata, il medico che aveva in cura papà ha detto che quello effettuato al lunedì era negativo perché si riferiva all’esito precedente (quello di ben nove giorni prima) e finché non c’è la positività accertata la stessa non si comunica, che l’esito ufficiale era arrivato appena io ero uscita, che non ero stata avvisata della chiusura della stanza perché c’erano delle urgenze (ma questa non lo era?), che si consigliano le mascherine ma non si può obbligare a indossarle, in quanto i medici non sono carabinieri. In serata mi è salita la febbre, il covid ce l’avevo anch’io.
Papà è stato isolato e si è trovato da solo ad affrontare la situazione: è affetto da decadimento cognitivo e non osavamo pensare alla sua reazione, non vedendo i familiari accanto. E’ riuscito comunque a superare la malattia, ma adesso è molto debole e abbiamo chiesto di poter accedere, dopo le dimissioni, a un ospedale di comunità, la cosiddetta “lunga degenza” di un tempo. Ci è stato risposto che i posti sono alquanto limitati e la precedenza viene data, giustamente del resto, agli anziani completamente soli, senza familiari né badanti. Non è il caso di papà, così è stato riportato a casa, in condizioni veramente precarie; ci viene garantita l’assistenza dell’ADI (personale disponibile e molto umano) e veniamo dotati di attrezzature che fanno sembrare la camera da letto un ospedale da campo.
Ci chiediamo francamente dove stia andando la sanità pubblica, affidata ormai alla buona volontà e all’impegno di pochi: fino a qualche anno fa, persone come papà venivano assistite in sicurezza all’interno di strutture ospedaliere o similari, ora non più. Per entrare nelle graduatorie ed essere inseriti nei tempi desiderati, bisogna partire con la richiesta parecchi mesi prima. Se lo si fa, come nel nostro caso, solo quando si presenta la necessità, passa come minimo un mese prima di essere contattati e nel frattempo ci si deve arrangiare con interventi tampone.
All’atto delle dimissioni, viene anche scritto quanto è costato il paziente nel periodo di degenza, ma andrebbe specificato anche quanto papà, in oltre novant’anni di vita e oltre quaranta di lavoro, ha versato allo Stato per garantirsi un’assistenza adeguata. Che purtroppo non c’è più, questa è l’amara realtà.
Lettera firmata da Mirella Dal Zotto
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