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Marano. Parla un testimone: ‘Ho visto morire Alioune, ma ora non facciamo morire Nicolò’

“Io ho visto la macchina arrivare, ho sentito la botta e ho visto il corpo di Alioune sbalzato dall’altra parte, a diversi metri”.

A parlare del tragico incidente che è costato la vita al 19enne di origini senegalesi Alioune Ndiaye, investito alle prime ore di sabato mentre era in sella alla sua bici, è Guido Marcolin, uno dei testimoni oculari e titolare del Mexicali, il locale accanto al multisala Starplex dove Alioune stesso ha lavorato qualche tempo addietro come aiuto cuoco.

E’ molto provato Guido Marcolin, lui e la compagna da domenica stentano a chiudere occhio e non si danno pace per quella scena che difficilmente riusciranno a dimenticare.

Dopo il dolore e lo sconforto che sembrava accomunare tutti nei primi momenti, le polemiche sono inevitabilmente montate prendendo il sopravvento e nel dibattito, l’opinione pubblica si è per la gran parte divisa tra chi ritiene di condannare al cappio il giovane investitore con commenti di una ferocia spietata ed irripetibile e chi invece insinua più o meno velatamente colpevolezze anche nella condotta del povero Alioune. Questo però, è stato smentito dall’avvocato Debora Squarzon, che difende la famiglia della vittima che implora giustizia e vuole che sia fatta piena luce sulla tragedia che all’alba di una domenica d’estate, ha strappato la vita ad un ragazzo buono, di sani principi, con la voglia di aiutare il prossimo. Stava andando a lavorare il 19enne, erano le 5,30 ed era sulla sua bici, unico bene che possedeva.

“Il nostro locale era già chiuso da un pezzo” – racconta con voce flebile ed emozionata Marcolin – “con la mia compagna e alcuni dipendenti eravamo fuori per riordinare e pulire tutto come facciamo regolarmente. A quell’ora le macchine che passano sono assai poche, e quando ho visto l’Alfa Romeo sopraggiungere da Schio mi è venuto spontaneo alzare gli occhi. In pochi secondi abbiamo sentito una grande botta e il corpo di Alioune scaraventato molto più in là. Ho mollato tutto e sono corso sul posto: ho riconosciuto Nicolò, ma essendo col capo rivolto verso terra non ho riconosciuto Alioune. Nicolò era sopra di lui, lo incitava a non mollare, gli parlava come fosse vivo. Ma Alioune era già morto.”

E poi l’arrivo dei soccorsi e delle forze dell’ordine assieme al padre Makhete, che sconvolto è caduto a terra implorando il nome del figlio: “Un uomo distrutto, non potrò dimenticare. Come non potrò dimenticare Nicolò: nel preciso momento in cui i soccorritori  hanno posato il lenzuolo bianco sul cadavere di Alioune non smetteva di ripetere ossessivamente ‘Sono un assassino, sono un assassino’. Eravamo tutti atterriti, senza parole. Solo tante lacrime.”

Una tragedia che presenta ancora alcuni elementi poco chiari ed è proprio Marcolin a porre una delle domande, cui gli inquirenti dovranno dare risposta: “Ero a poche decine di metri, la bici di Alioune non stava andando verso Schio, ma al contrario verso Marano, proprio come l’auto di Dalla Vecchia. Il contatto c’è stato sicuro ma questa cosa, senza nulla togliere al gravissimo sbaglio di Nicolò e senza entrare nel merito della sua posizione che non mi compete, non riesco a spiegarmela se non col fatto che magari per qualche ragione Alioune avesse deciso di invertire la rotta”.

Stando a quanto sinora raccolto e raccontato infatti, e in attesa di ulteriori elementi che potrebbero essere forniti dal giovane passeggero che viaggiava al fianco dell’automobilista scledense tuttora sotto choc, la versione fornita da Marcolin non collimerebbe con quella che vedeva Alioune intento a recarsi al lavoro quindi necessariamente verso Schio dove ha sede la ditta Polidoro Spa che recentemente l’aveva messo sotto contratto.

Circostanze significative probabilmente ai fini dell’incidente probatorio, molto meno nella sostanza di chi ha perso un figlio che giace cadavere all’obitorio o di chi invece teme ora di perderlo: “Nicolò è un automa, la sua vita è in serio pericolo” – racconta ancora Marcolin – “e se piangiamo Alioune per la sua assurda morte, non possiamo chiedere anche la vita di Nicolò. Che abbia sbagliato e debba pagare è fuori discussione, lui lo sa bene e non ha bisogno della gogna mediatica. C’è perfino gente che lo invita ad uccidersi, mi pare si stia degenerando oltre ogni misura”.

 

Considerazioni sentite ed accorate, che vengono da giorni di grande turbamento e che non vogliono in alcun modo prendere le parti di quelli che ritiene essere entrambi vittime, pur con gli opportuni distinguo: “Nicolò ha sbagliato a bere così, ma quando ha lasciato il nostro locale verso le tre, aveva bevuto solo un paio di drink leggeri . Cosa abbia fatto nelle due ore successive non lo sappiamo. Noi per prassi, specie coi giovani, quando vediamo l’eccesso smettiamo di dar da bere: non sono 10 euro a farmi ricco, non sulle spalle di ragazzini. Più di una volta ne ho tenuto lì qualcuno, ho dato loro qualcosa da mangiare a nostre spese aspettando che la sbornia passi. Mi pare il minimo”.

Atteggiamenti di responsabilità e parole misurate che assumono tutt’altro tono quando invece si parla della strada che corre davanti al suo locale: “Non ho problemi a dire che quella strada, la Maranese, è pericolosa anche per uno assolutamente sobrio. Pericolosa e anche buia. Qui abbiamo visto almeno quattro gravissimi incidenti, che altro deve ancora succedere prima che qualcuno decida di intervenire”?

Marco Zorzi

Due famiglie che soffrono

Il destino di Nicolò e Alioune si è incrociato sulla ‘Maranese’. Il primo rientrava da una nottata ‘di festa’, il secondo si stava recando al lavoro a Schio, con l’entusiasmo di chi ha avuto il suo primo contratto. Voleva aiutare il padre a sostenere la famiglia Alioune, che forse in vita non ha fatto in tempo a comprendere quanto amore fosse riuscito a seminare nella sua breve esistenza. I ragazzi dell’Engim di Thiene sono sconvolti e non riescono a farsi una ragione di quanto accaduto ad ‘Ali’. Marano, il paese dove risiedeva è sotto choc e l’amministrazione comunale di Marco Guzzonato sta cercando di stare accanto ai familiari distrutti dal dolore, che tra qualche giorno partiranno per il Senegal, dove Alioune riceverà l’estremo saluto. Grazie all’avvocato Deborah Squarzon, che si sta facendo in quattro non solo professionalmente, ma come una ‘madrina’, che ha preso a cuore il caso giudiziario, sfoderando tutte le sue doti umane, la salma potrà raggiungere la terra natia dei genitori. Ha spinto il piede sull’acceleratore della burocrazia facendo i salti mortali.  Il legale ha promesso giustizia al padre di Ali, sta lavorando come una guerrigliera in pieno agosto perchè vuole dimostrare, quanto già trapela dagli atti. Nicolò Dalla Vecchia era alla guida con un tasso alcolemico di 1,95, il gomito lo aveva alzato ed il legale non ci sta quando qualcuno insinua che ‘qualcosa non quadra’. Non ci sta perchè parole come queste oltraggiano la morte di un ragazzo che non c’è più, che i suoi genitori non potranno mai più riabbracciare. “Cosa c’entra?” – si altera l’avvocato Squarzon – “come si può arrivare a dire cose del genere? Dalla Vecchia aveva assunto alcol e guidava,  mi sembra paradossale che adesso si dia persino la colpa a chi stava sulla strada e mai avrebbe immaginato che la sua morte fosse in agguato”.

Eppure, nella tarda mattinata di oggi, un familiare di Nicolò Dalla Vecchia ci ha contattati per darci degli ‘ipocriti’ , esordendo con la parola ‘vergognatevi’. Solo per esserci occupati del fatto di cronaca e di un giovane morto sulla strada, quando aveva tutto il diritto di vivere. Comprendiamo il dolore della famiglia Dalla Vecchia, ma forse ci saremmo aspettati altre parole di buon senso e non di accusa nei confronti di Alioune, che poteva essere il figlio di ognuno di noi. E contro una testata giornalistica, che certo non si diverte ad occuparsi di tragedie simili. Signora Paola, siamo genitori anche noi e pur comprendendo il vostro dolore, forse avrebbe fatto meglio a spendere qualche parola nei confronti di Alioune, che non c’è più. Non siamo giudici, raccontiamo fatti, cara signora Dalla Vecchia.

Ci sarà tempo di dimostrare tutto nelle aule di tribunale. Forse oggi, era il giorno del silenzio, in memoria di chi non è più tra noi.

Natalia Bandiera