Ci è voluto un quarto di secolo ma, alla fine, la verità è venuta a galla: Silvio Berlusconi aveva ragione. Le toghe rosse esistono e, oggi, hanno nomi e cognomi. Uno scandalo, quello ha travolto il Consiglio superiore della magistratura, talmente esteso e di una gravità tale da fare impallidire Tangentopoli e il mistero sulla trattativa Stato – mafia messi insieme.
Il settimanale l’Espresso, per un ventennio nemico giurato del Cavaliere, non esita a definire l’informativa del Gico della guardia di finanza «un pozzo senza fondo». «Letta dall’inzio alla fine – si legge in un articolo di ieri a firma di Emiliano Fittipaldi – disegna un sistema mefitico di intrallazzi e operazioni oscure che hanno un solo obiettivo: la gestione assoluta del potere. In particolare, del potere giudiziario in Italia. Fuori ogni canone costituzionale. Fuori ogni logica democratica. Protagonisti della storia, come sappiamo dalle cronache delle ultime due settimane, toghe di primo livello della magistratura italiana, e alcuni politici che tramano – insieme a loro – per piazzare uomini graditi in cima agli uffici giudiziari più delicati del Paese. Regista indiscusso del film horror sulle nomine, almeno a leggere le trascrizioni delle registrazioni effettuate dal trojan piazzato dal Gico della Guardia di Finanza nel suo cellulare, è Luca Palamara».
Il leader di Unicos, corrente centrista dell’Associazione nazionale magistrati, indagato per corruzione a Perugia, è tra coloro che, negli anni, contro il fondatore di Forza Italia, hanno condotto un’autentica crociata. Uno spiegamento di forze senza precedenti, culminato in una quarantina di processi. I capi di imputazione vanno dalla diffamazione allo spaccio di droga, dalle stragi di mafia alla corruzione. Senza farsi mancare assolutamente nulla. Nemmeno la prostituzione minorile nel caso Ruby.
Sua Emittenza l’ha fatta franca quasi sempre. Tranne che per il lodo Mondadori, che lo ha visto sborsare un patrimonio a beneficio di Carlo De Benedetti, ex editore de l’Espresso e la Repubblica, e per il processo Mediaset, culminato con la condanna a 4 anni di reclusione per frode fiscale. Il giusto per impoverirlo economicamente e indebolirlo politicamente. Dopo il sistematico lavoro ai fianchi condotto mediaticamente dal centrosinistra, abile a cavalcare la guerra senza quartiere intrapresa contro l’ex premier. E, col senno di oggi, a pilotarla, forse. Con una serie di bombe a orologeria esplose sempre al momento giusto. Tanto da indurre una nutrita parte degli elettori a dubitare della fondatezza di così tante inchieste, capaci unicamente di alimentare il mito della persecuzione giudiziaria. Dubbi rafforzati dall’abitudine di molte toghe, una volta raggiunta la notorietà, di candidarsi in politica, curiosamente in seno o al fianco del Partito democratico o dei suoi antesignani Pds e Ds.
Una volta relegato a posizioni più marginali, Berlusconi ha visto per incanto cessare la produzione continua di procedimenti a suo carico. Salvo riscoprirne il sapore amaro, una volta comunicata l’intenzione di volersi rimettere in gioco, alle scorse elezioni europee.
Oggi, però, a dovere rendere delle spiegazioni agli italiani sono coloro che, di solito, le sentenze dovrebbero darle, non subirle. Insieme a esponenti di quel Nazareno moralista e giustizialista che, sugli avvisi di garanzia anziché sui progetti politici, ha costruito le proprie fortune.
Un vizio che non è venuto meno neanche con il nuovo leader in pectore del centrodestra italiano, Matteo Salvini. Risalgono allo scorso gennaio l’inchiesta a suo carico per sequestro di persona aggravato, da parte del tribunale dei ministri di Catania, e le invettive dell’Anm, con l’esortazione, a seguito della sua “difesa” in diretta Facebook, a rispettare le regole e il lavoro dei magistrati «cui la Costituzione assegna precise prerogative», e a evitare rigorosamente «il rischio di una delegittimazione della magistratura, il cui operato viene fatto nel rispetto delle leggi dello Stato, è alto e va assolutamente evitato».
Una Anm talmente abituata a violare il principio della separazione dei poteri, sancito proprio dalla Costituzione, che a marzo non ha saputo resistere alla tentazione di contestare apertamente una legge approvata dal Parlamento: «La nuova legge sulla legittima difesa non tutelerà i cittadini più di quanto erano già tutelati fino ad oggi; al contrario introduce concetti che poco hanno a che fare con il diritto, prevede pericolosi automatismi e restringe gli spazi di valutazione dei magistrati, oltre a portare con sé grandi difficoltà di interpretazione: tutto ciò significa che tutti saranno meno garantiti».
Morale della favola, il cosiddetto caos delle procure ha indotto Pasquale Grasso a dimettersi dalla presidenza dell’Anm. Probabilmente, a delegittimare i giudici, non sono i Berlusconi o i Salvini di turno ma la loro stessa condotta. Con pene troppo spesso irrisorie nei confronti di criminali efferati e pericolosissimi e giochi di potere, come quelli emersi in queste settimane, capaci di minare il principio costituzionale dell’imparzialità dei magistrati. Principio il cui rispetto è stato invocato, non a caso, appena pochi giorni fa dal presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi.
Fabio Bonasera