di Bruno Grotto
Settantacinque coltellate. E tuttavia, non bastano a definire la crudeltà.
È questa, in sintesi, la dissonanza tragica che si cela tra le righe della sentenza con cui la Corte d’Assise di Venezia ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo per l’omicidio di Giulia Cecchettin.
Una condanna giusta, sì. Ma accompagnata da una motivazione che inquieta.
Perché riconoscendo l’efferatezza dell’azione, la Corte introduce contemporaneamente una attenuante: la giovinezza, l’inesperienza, una forma di inabilità che, pur non assolvendo, sembra disinnescare — almeno sul piano simbolico — la piena consapevolezza del male compiuto.
È qui che il linguaggio giuridico mostra tutta la sua fragilità.
Come osservava Simone Weil, “la giustizia è attenzione pura”. Ma può l’attenzione rimanere pura quando, nel tentativo di comprendere, finisce per ridurre?
Perché se settantacinque coltellate possono essere in parte ricondotte a un’incapacità emotiva o relazionale, allora la crudeltà – come concetto etico e politico – si dissolve.
E con essa, rischia di dissolversi anche la responsabilità piena dell’atto.
La sentenza stessa, in un passaggio denso e tragico, riconosce che il gesto di Turetta è stato motivato da “intolleranza per la libertà di autodeterminazione della giovane donna, di cui l’imputato non accettava l’autonomia, neppure nelle scelte di vita più banali”.
Parole pesanti, che evocano un intero sistema arcaico di dominio, quello che Michel Foucault avrebbe definito come il biopotere: la volontà di controllo non solo sul corpo, ma sull’identità dell’altro.
Eppure, nonostante questo riconoscimento, la Corte si rifugia anche in una narrazione psicologica: un giovane incapace di affrontare l’abbandono, immaturo, inabile alla relazione.
È una frattura sottile ma profonda: la coesistenza di due verità nella stessa sentenza. Una condanna esemplare sul piano formale, e un linguaggio che – quasi involontariamente – rieduca l’atto alla categoria dell’errore.
Hannah Arendt, parlando della “banalità del male”, ci ha insegnato che l’orrore non ha bisogno di mostri. Può vestire l’ordinarietà, il grigiore della mediocrità burocratica.
Nel caso Turetta, però, ciò che inquieta non è solo la banalità del gesto, ma la possibilità che la società – e con essa la giustizia – finisca per banalizzare anche il giudizio.
Quando il male viene compreso a tal punto da essere quasi giustificato, quando l’analisi psicologica diventa un filtro che attenua la condanna simbolica, allora la giustizia non è più riparazione: diventa narrazione ambigua.
E infine, resta lei: Giulia.
La giovane donna che voleva solo esistere, scegliere, vivere.
E che oggi rischia di essere doppiamente violata: prima nel corpo, poi nel linguaggio.
Vivere, oggi, significa resistere.
Significa dire che non esiste età, contesto, fragilità che possano ridefinire la crudeltà di un femminicidio.
Che comprendere non significa neutralizzare.
Che l’atto di uccidere per annientare l’autonomia di una donna non può essere letto come un incidente esistenziale.
La giustizia deve essere lucida. Ma anche ferma.
E, come direbbe Weil, deve saper vedere tutto, senza permettere che lo sguardo riduca l’essenziale.
