“Gli occupati a fine 2023 hanno toccato quota 23 milioni e 754mila unità, 546mila in più rispetto al dicembre 2022. Il tasso di occupazione sale al 61,9%, quello di disoccupazione al 7,2% (dati Istat). A guardare l’entusiasmo di alcuni giornali e di alcuni commentatori su questo risultato – certamente di per sé positivo – si ha l’impressione che siano venute meno la capacità e la visione d’insieme che servono per andare in profondità del tema”. Inizia così l’analisi di Ubaldo Livolsi, professore di Corporate Finance e fondatore della Livolsi & Partners S.p.A., nel nuovo appuntamento con la sua rubrica con l’agenzia Dire, curata da Angelica Bianco.
“Il numero delle persone in cerca di lavoro- continua- diminuisce per tutte le classi d’età, con l’eccezione dei 15-24enni. La quantità di inattivi lievita al 33,2%. Il divario occupazionale tra il Nord e Sud del Paese persiste. Se è vero che le statistiche indicano un innalzamento dell’occupazione femminile, non bisogna dimenticare che durante la pandemia furono le donne a perdere il 99% dei posti di lavoro. Il divario di genere resta alto. Le aziende non riescono a coprire i profili più qualificati richiesti dal mercato. Secondo Excelsior Unioncamere, le imprese avevano programmato per l’anno scorso 5,5 milioni di assunzioni, ma quelle effettive sono arrivate al 50%. Non fa ben sperare il dato dell’Università, dove continua il calo degli iscritti (-2% di matricole nel 2022). Come è stato osservato da editorialisti attenti, come Francesco Giavazzi, se aumenta il numero dei lavoratori, ma il Pil rimane sostanzialmente stabile, c’è un problema di produttività, un indice essenziale di misurazione della salute di un’economia. Romano Prodi si è chiesto paradossalmente se l’occupazione così alta non finisca per incidere negativamente sulla produttività. Sono riflessioni da valutare con molto riguardo. Gli occupati aumentano più nei servizi, che nell’industria dove diminuiscono (nei servizi è ovviamente più difficile riconoscere la produttività). Non solo, dal momento che le nuove tecnologie e l’Ai faranno diminuire i lavoratori dell’industria, è necessario mettere in atto una sistema di valutazione della produttività dei servizi”.
“Col dilatarsi dell’occupazione- spiega ancora Livolsi- dovrebbe ampliarsi il totale del reddito di lavoro, il che dovrebbe avere ricadute positive sull’inflazione, ma a gennaio l’Istat registra un rincaro dei prezzi dello 0,8% su base annua (dallo 0,6% di dicembre) e dello 0,3% su base mensile. La crescita degli occupati dovrebbe avere conseguenze positive sulle pensioni, non solo per i lavoratori a tempo indeterminato, ma anche per quelli a tempo determinato. Dal 2020 al 2050 il tasso di sostituzione lordo della previdenza obbligatoria decrescerà dal 71,7% al 58,4% nel privato e dal 54,9% al 46,7% tra gli autonomi (dati Ragioneria generale dello Stato), ma la previdenza complementare in Italia è ancora in stallo: le forme previdenziali integrative nel nostro Paese rappresentano alla fine del 2022 meno del 10% del Pil, in UK oltre il 100% e nei Paesi Bassi più del 200%. È fondamentale realizzare percorsi di competenze in grado di creare queste figure professionali. Servono interventi su tutta la filiera della formazione, da quella umanistica e tecnologica a quella professionale e alle scuole dei mestieri. Il percorso è stato già avviato con il potenziamento degli Istituti tecnici superiori (ITS) del Governo Draghi e il nuovo liceo del made in Italy, voluto dal ministro delle Imprese e della Attività produttive Adolfo Urso, va anch’esso in questa direzione. Cionondimeno, tutto il sistema delle competenze deve rientrare nell’ambito di una visione d’insieme di modernizzazione del Paese come indicato dal Pnrr, che ha nella PA, nella digitalizzazione e nell’innovazione e nella formazione dei punti fondamentali.
“È anche vero che le aziende devono fare la loro parte e cercare di venire incontro ai giovani che adesso esprimono nuove richieste nell’ambiente di lavoro. Secondo una ricerca di Randstad, se nel 2014 i giovani indicavano come priorità il posto fisso tra le caratteristiche più ricercate in ambito professionale, ora privilegiano peculiarità come l’equilibrio tra vita privata e professionale o il clima aziendale. Di strada da fare ce ne è ancora. Secondo una ricerca dell’Università Cattolica infatti- conclude Livolsi- un lavoratore su cinque si trova male all’interno dell’organizzazione in cui lavora”.