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E se i figli dei potenti morissero per primi?

di Bruno Grotto

Prepara la guerra se vuoi la pace.

Che aforisma da caserma dell’anima, scolpito nella stupidità bronzea dell’uomo che crede d’essere Storia. Un’idiozia detta col tono oracolare degli imbecilli con o senza divisa, ancora in voga, sì, come la muffa sulle pareti dell’intelletto.

È l’idiozia dell’ossimoro esibito con fierezza da chi ignora il silenzio, da chi non sa che la pace, la vera pace, non si arma: si disarma. La guerra non è madre della pace, è la sua contraffazione, la sua caricatura mostruosa.

Ma l’uomo – povero buffone tragico – continua a marciare sull’eco della retorica, convinto che le bombe insegnino l’armonia, che il fuoco porti melodia e giustizia, che la carne maciullata abbia un fine pedagogico.

Prepara la guerra se vuoi la pace…

Ma certo!

E affoga, affoga pure il mondo nel sangue, per condannare l’innocenza.

Nel teatro dell’assurdo umano, l’applauso è sempre per l’assassino in giacca e cravatta.

Ma andiamo con ordine.

E se i figli dei potenti – quei cherubini ben pasciuti, scortati da auto blu e diplomazie cieche – cadessero per primi, con il coraggio e il cranio squarciato da un proiettile, nel fango del primo crinale? Se a morire – non per amore della patria, ma per decisione della patria – fossero i rampolli dei ministri, dei generali, dei presidenti, l’eccellenza del privilegio allevata a pane e immunità?

È una domanda, sì. Ma è più ancora un’invocazione all’antica giustizia tragica, quella che sa distinguere tra il sangue degli altri e il proprio. Necessitiamo di una legge ancora non scritta ma arcaica come il fuoco: nessuno muova guerra senza prima offrire il suo primogenito in ostaggio al destino che ha convocato.

Ma chi governa oggi, chi traccia linee rosse sui confini, lo fa come chi gioca a Risiko con la morte degli altri, e la propria a distanza. Tace il dolore, si amplifica la retorica.

La modernità, ubriaca d’ipocrisia, ha esentato la stirpe del potere dal sacrificio. 

Altro che Achille, altro che Enrico V sotto la pioggia di Azincourt: i figli dell’oggi studiano a Yale, non strisciano nei reticolati. Parlano di pace nei convegni, mentre altri muoiono per loro sotto la pioggia delle bombe e dell’artiglieria. Eppure, chiedere che le decisioni siano pagate da chi le prende non è utopia: è morale elementare.

La bara che rientra – il suo legno greve, l’eco di un nome inciso sul coperchio – ha più verità di mille comizi. Il potere che non ascolta il pianto delle madri è un potere che ha smarrito il fondamento stesso della politica: la responsabilità. Non si governa per comandare, ma per custodire. E nessun padre che custodisca, oserebbe spedire i figli degli altri, se prima non fosse pronto a sacrificare il proprio.

Che allora muoiano per primi – sì, per primi – i figli dei potenti. Che imparino la marcia, il dolore, l’urlo, la fame, l’esplosione. Che siano essi, e non i figli degli ultimi, a pagare l’arroganza di chi confonde la guerra con il coraggio. Solo così, forse, la guerra tornerà ad essere ciò che è sempre stata: una mostruosità da evitare, non una bandiera da sventolare.

Altrimenti continueremo a celebrare le vittorie degli uni, sulle tombe degli altri. Con il potere che si lava le mani nel sangue del prossimo, sempre altrove, sempre al sicuro, mentre ogni guerra continuerà ad essere una sconfitta, non solo della pace, ma anche della verità e dell’anima che ci compone. 

Bruno Grotto

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