In principio erano un manipolo in camicia nera, stanchi della miseria del Dopoguerra e della corruzione dei governi liberali. Li guidava un maestro di scuola, gli occhi spiritati ma grande carisma. Diventarono sempre più  numerosi e si armarono di olio di ricino e manganelli per convincere gli ostili della bontà delle loro intenzioni. Cominciarono ad assaltare i luoghi di una cultura ancora elementare e popolare, le Case del Popolo appunto. E bruciavano, ridendo e sbeffeggiando, libri e giornali. Marciarono su Roma e la conquistarono, anche se il Capo arrivò in treno. La farsa diventava dramma. Parlamento azzerato senza neppure scomodare lo Statuto Albertino e al suo posto una Camera delle Corporazioni che non decideva nulla. Vennero gli “anni del balcone” in piazza Venezia, che ad ogni adunata si riempiva sempre più di popolo entusiasta e spontaneo. I giornali sparirono tranne uno, il suo Giornale d’Italia. Quelli che sopravvissero fu perché si adeguarono.

Pochi anni dopo, un imbianchino austriaco ricalcò le orme del Capo italiano. E fu peggio. Un popolo era in miseria, alla fame, le camicie questa volta erano brune e i libri e i giornali alimentavano i falò. E il dramma si fece tragedia.

Si sa, è storia dell’altro ieri. Ma è storia e come finì è cosa nota. Nei decenni successivi di pace e di democrazia, le Nuove Conquiste, i rapporti tra Potere e giornali non è mai stato facile, dalle nostre parti. Non da molto abbiamo lasciato un altro Ventennio durante il quale i giornali se non potevano essere zittiti, venivano comprati. I giornalisti scomodi cacciati o condizionati e ridotti al silenzio. I ribelli puniti con l’emarginazione. E nessuno di loro ha mai raccontato l’umiliazione dell’impotenza, la frustrazione delle battaglie combattute e perse per restare liberi e in pace con la propria coscienza. Queste non erano notizie, non avrebbero interessato nessuno. E’ storia di ieri, rischia di essere storia di domani.

I giornalisti non sono vittime né eroi. La stampa è un concetto astratto. Esistono giornali e giornalisti. Ed editori. Si dividono in bravi e asini. Buoni o cattivi è un giudizio etico, non professionale. Liberi o servi, un problema di coscienza dei singoli. Esattamente come per i medici, gli avvocati, gli ingegneri e tutti quelli che si vuole.  Enrico Mattei, grande boss dell’Eni, aveva bisogno di un giornale che sostenesse le sue strategie sulla politica energetica. Ne fondò uno tutto suo. “Il Giorno” – nonostante le sue origini – fu una grande scuola di giornalismo. Gaetano Afeltra è solo uno dei nomi.

Giornali e giornalisti informano, ma possono pure fiancheggiare e questo è un guaio. In certi mestieri l’intimità non è un bene. Indro Montanelli si vantava di non aver mai cenato con un politico. Piace pensare che fosse stato davvero così.

Giornali e giornalisti vivono – o dovrebbero – di notizie, ma anche di inchieste e di retroscena che più sono inconfessabili e meglio è. Qualcuno si ferma mai a riflettere su una verità elementare? Si legge o si sente di scandali e di politici corrotti. Chi li racconta? Strano: giornali e giornalisti. Che per loro natura fanno sistema e da queste parti sistema – piaccia o no –  vuol dire democrazia.

Chi oggi imita dai palcoscenici issati nelle piazze il giullare di ieri in piazza Venezia, chi lancia parole e campagne di odio e di disprezzo, vorrebbe forse ridurre quei rompicoglioni a ciò di cui li accusano: essere venduti. Forse sarebbero felici di comprare. Dove starebbe la differenza? Non è così che funziona. Bisogna fare sempre attenzione ai colori delle camicie: il nero e il bruno. E ricordarsene. La libertà di espressione negli Usa è garantita dal Primo Emendamento e non c’è politico che, almeno in pubblico, osi attaccarlo. In Italia dall’articolo 21 della Costituzione. Lo ripassi ogni tanto chi vuol proteggere la Carta da chi oggi vuole sfigurarla.

Chi fa o ha fatto questo mestiere, gettando sempre il cuore oltre la siepe delle amarezze e delle delusioni e delle fatiche oneste, conserva memoria, forse romantica e forse retorica, della frase famosa recitata da Humphrey Bogart in Deadline: “E’ la stampa, bellezza. E tu non ci puoi far niente”. Niente.

Sergio Raimondi

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