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Covid, psicologa non vaccinata riammessa al lavoro: sentenza storica

“La sospensione dell’esercizio della professione rischia di compromettere beni primari dell’individuo quale il diritto al proprio sostentamento e il diritto al lavoro di cui all’articolo 4 inteso come espressione della libertà della persona e della sua dignità, garantita appunto dalla libertà dal bisogno”. È quanto riportato nelle premesse di motivazione di una sentenza destinata a far discutere e a riaprire vicende come quella dei militari o sanitari sospesi per mancato ottemperamento dell’obbligo vaccinale Covid-19 che hanno presentato ricorso. A firmare la sentenza è stata la giudice Susanna Zanda del Tribunale ordinario di Firenze, seconda sezione civile, che ha sospeso il provvedimento che vietava ad una dottoressa di esercitare la sua professione di psicologa perché non vaccinata al Covid-19, rimandando il contraddittorio a una udienza fissata per il prossimo 15 settembre.
“Quando viene citato lo scopo di ‘impedire la malattia e assicurare condizioni di sicurezza in ambito sanitario’- si legge in sentenza- si controbatte che ‘questo scopo è irraggiungibile perché sono gli stessi report di Aifa ad affermarlo”.

Nel dispositivo si fa riferimento anche ad un “fenomeno opposto a quello che si voleva raggiungere con la vaccinazione, ovvero un dilagare del contagio con la formazione di molteplici varianti virali e il prevalere numerico delle infezioni e decessi proprio tra i soggetti vaccinati con tre dosi’”.
Nel contestare l’obbligo vaccinale, il provvedimento cita l’articolo 32 comma 2 della Costituzione: “Dopo l’esperienza del nazi-fascismo non consente di sacrificare il singolo individuo per un interesse collettivo vero o supposto e tantomeno consente di sottoporlo a sperimentazioni mediche invasive della persona, senza il suo consenso libero e informato”, “ne verrebbe lesa la sua dignità” si legge ancora.
E insiste ancora il provvedimento anche nella parte finale sul “profilo epidemiologico non dissimile tra un non vaccinato e un vaccinato perché entrambi possono infettarsi, sviluppare la malattia e trasmettere il contagio”.

Si evidenzia che “le varie convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia vietano l’imposizione di trattamenti sanitari senza il consenso dell’interessato perché ne verrebbe lesa la sua dignità” e che la Costituzione “non consente allo Stato e a tutti i suoi apparati centrali e periferici di imporre alcun obbligo di trattamento sanitario senza il consenso dell’interessato”. Si cita in sentenza “anche il Regolamento europeo 953/2021 che vieta discriminazioni dei cittadini europei fondate sullo stato vaccinale”.