Prima di morire Matteo scrisse una lettera ai thienesi: “Impariamo da chi sta peggio”
Giornalisti Altovicentinonline
Un fiume di lacrime, emozioni che impedivano di parlare, le bocche increspate in sorrisi che tentavano di nascondere gli occhi lucidi e i cuori sballottati nel ricordo di un giovane caporal maggiore morto 11 anni fa per uno sparo in guerra, mentre i suoi amici a Thiene si preparavano a festeggiare la serata di Capodanno.
Matteo Miotto non è solo nei cuori dei thienesi, ora è anche lì, presente con i suoi valori di giovane per i giovani, nella Piastra Sportiva Polivalente di via Trentino a Thiene, che gli è stata dedicata dall’amministrazione comunale dopo che il Consiglio al completo ha approvato il tributo ufficiale al giovane caporal maggiore, morto il 31 dicembre 2010 in seguito alle ferite riportate in uno scontro a fuoco, a Buji, nella valle del Gulistan in Afghanistan.
Lacrime per i tanti presenti, con le numerose autorità che pur se abituate a presenziare ad eventi toccanti, non sono riuscite a non commuoversi.
Primo tra tutti il sindaco Giovanni Casarotto, che nel suo discorso per ricordare e celebrare Matteo ha pianto tanto, scosso, con le lacrime che gli scendevano copiose fino in bocca e lo costringevamo a rimanere in silenzio per riprendere fiato.
Una cerimonia solenne e fortissima quella che si è tenuta questa mattina, sabato 24 luglio, a Thiene.
“Ho visto Matteo Miotto in un campo scuola prima che partisse e ho conosciuto i suoi valori e quanto per lui era importante aiutare gli altri e fare del bene”, ha detto tra le altre cose Casarotto, che più volte si è interrotto commosso parlando del giovane soldato che non è più tornato.
“E’ stato emozionante assistere alla cerimonia in onore di Matteo Miotto, che per Thiene è un vero eroe, uno che si è sacrificato per gli altri – ha commentato Umberto D’Anna, consigliere comunale di Thiene. Era come se Matteo fosse tra di noi, il tributo e le parole lette da una lettere del caporal maggiore hanno scosso i nostri animi, hanno fatto emergere le nostre emozioni portando alla superficie quel miscuglio di tristezza e di onore che tutti proviamo nei suoi confronti”.
Il generale Michele Risi ha riassunto la storia di Matteo con poche e semplici parole: “Matteo non è stato meno fortunato di noi, è stato più coraggioso di noi”.
“L’opera realizzata, con aree attrezzate per lo skate, il calcio a cinque ma la piastra del calcio servirà anche altre discipline, l’area per il parcour e il calisthenic, si inserisce in uno spazio già servito in precedenza da un campo da calcio con spogliatoi e un campo per il basket, potenziando in questo modo la struttura preesistente e riqualificando tutto questo ampio spazio urbano – ha sottolineato Gianantonio Michelusi, assessore allo Sport – Caratteristiche che forniscono anche risposte concrete alle richieste e alle esigenze in modo particolare ai giovani che hanno la necessità oggettiva di godere del benessere psicofisico che lo sport offre a chi lo pratica. Benessere significa tuttavia togliere i giovani dalla strada che troppe volte diventa strumento di deviazione sociale”.
Ma nella cerimonia le parole più importanti le ha pronunciate proprio Matteo Miotto, attraverso la voce del giovane attore Matteo Dal Ponte, che ha letto con pathos e coinvolgimento una lettera che il caporal maggiore thienese aveva spedito all’allora sindaco Maria Rita Busetti, in rappresentanza di tutta la città.
La lettera di Matteo Miotto, scritta all’ex sindaco Maria Rita Busetti nell’ottobre 2010 nella ricorrenza della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate
Testimonianza dall’Afghanistan Valle del Gulistan.
Voglio ringraziare a nome mio ma soprattutto a nome di tutti noi militari in missione, che come Lei Sindaco ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pensiero solo in tristi occasioni come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti perché facevano il loro dovere. Del resto, ciò che fa rumore al giorno d’oggi e fa smuovere voti è ben altro…
Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo. Questi popoli di terre sventurate, in cui spadroneggia la corruzione, in cui a comandare non sono governanti ma capi clan che ottengono il potere con il sangue, hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate, hanno marciato sulle loro case: invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze stravaganti ha qualcosa da insegnare a noi civilizzati occidentali. Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce… Nel mezzo blindo, all’interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili kamikaze avvistati, su possibili zone per imboscate, nient’altro nell’aria. Consci che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle 6 tonnellate del nostro Lince. Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l’ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio… Veniamo accolti dai bambini, che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: sono pieni di fame… Poi li guardi: sono senza scarpe, scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio nudo ha già vestito più di qualche fratello o sorella. Dei loro padri e delle loro madri neanche l’ombra. Il villaggio è un via vai di bambini, han tutta l’aria di non essere lì per giocare… Non sono lì a caso, hanno quattro, cinque anni i più grandi massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene: sotto c’è un asinello stracarico. Porta con sé il raccolto, i bambini stanno lavorando e i fratelli maggiori, si intenda non più che quattordicenni, con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di pecore ne sa qualcosa. Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci guarda, dalla barba gli dai sessanta o settant’anni, poi scopri che ne ha al massimo trenta. Delle donne neanche l’ombra, quelle poche che tardano a scappare al nostro arrivo al villaggio indossano il burka integrale: ci saranno quaranta gradi all’ombra. Quel poco che abbiamo con noi glielo lasciamo.
Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempirsi bene le tasche e il mezzo di acqua e viveri: non serviranno certo a noi. Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati. Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: brutta cosa, beato ti che non te la vedarè mai. Ed eccomi qui, nella Valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Nonno, se tu potessi ascoltarmi ti direi Visto, nono, che te te si sbaià”.