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Afghanistan ai talebani: Matteo Miotto lo aveva detto. “La sua morte ha avuto senso?”

Per liberare l’Afghanistan dai talebani Matteo Miotto ha perso la vita, eppure che il suo gesto servisse a poco, forse addirittura a nulla, lo aveva predetto lui stesso in modo chiaro: “Questi popoli di terre sventurate, in cui spadroneggia la corruzione, in cui a comandare non sono governanti ma capi clan che ottengono il potere con il sangue, hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate, hanno marciato sulle loro case: invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate”.

Parole scritte nel 2010, che oggi, all’indomani della presa di Kabul da parte dei talebani, con la vicina proclamazione dell’Emirato Islamico, sono una stilettata al cuore. Sono tante le domande che si fanno i militari americani intervistati dalle troupe televisive in questi giorni, uomini che si dicono sconvolti per sacrifici che non sono serviti a nulla.

A Thiene, con la voce ferma, con tante domande nel cuore di padre, è Franco Miotto, papà di Matteo, a chiedersi per l’ennesima volta: “Ne è valsa la pena?”

E’ un domanda che si pone ormai da 11 anni, da quando suo figlio, il caporal maggiore thienese Matteo, è morto in seguito alle ferite riportate in uno scontro a fuoco, a Buji, nella valle del Gulistan in Afghanistan.

“Matteo credeva fermamente nella sua missione, sono convinto che lo rifarebbe, ma oggi più che mai, come faccio da allora, mi chiedo se ne sia valsa la pena. Prima me lo chiedevo ingenuamente, ora con meno ingenuità. E’ una domanda reale che mi sono sempre posto, non è una provocazione, è una cosa che mi chiedo continuamente e ora, mentre cerco di dare una risposta, sono un po’ frastornato”.

Franco Miotto è un uomo solido, consapevole, non una parola di odio, ma solo il cuore annientato di un padre che ha perso il figlio.

Sottolinea che non si aspettava che la situazione in Afghanistan sarebbe precipitata così velocemente. E ci tiene ad evidenziare il suo orgoglio per le ‘schegge di vita dall’Afghanistan’ di suo figlio, alcune delle quali sono riportate in una lettera che il caporal maggiore indirizzò ai thienesi ed in cui predisse, in modo pacato e quasi rassegnato, il trionfo dei talebani.

“Matteo aveva capito benissimo la realtà in cui si era calato – ha spiegato papà Franco – Rileggo le sue parole e mi rendo conto che la sua lettera oggi è ancora più preziosa. Matteo aveva compreso il mondo in cui si era trovato e lo aveva voluto condividere. Dobbiamo pensare che a allora sono passati 10 anni, la situazione era rimasta immutata fino a poco tempo fa e ora si è verificato quanto detto da mio figlio”.

Matteo Miotto aveva capito molto. E raccontava di bambini piccolissimi, incontrati nei villaggi durante le missioni, che avevano una fame incredibile e che circondavano i soldati in attesa di cibo. E i militari, che lo avevano capito, partivano carichi di tutto quello che potevano per lasciarlo a quei piccoli, che già a 4 anni erano al lavoro. Niente donne per strada, le poche che dovevano uscire erano bardate col burqa anche con 40 gradi all’ombra. Quello era l’Afghanstan di Matteo Miotto, quello è l’Afghanistan di oggi, dopo 20 anni di guerra e a 11 anni dalla morte di Matteo.

“Mi chiedo sempre se ne è valsa la pensa, se la morte di mio figlio ha avuto un senso – ha detto papà Franco – Non ho una risposta, fate voi”.

La lettera che Matteo scrisse ai thienesi nel 2010

“Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo. Questi popoli di terre sventurate, in cui spadroneggia la corruzione, in cui a comandare non sono governanti ma capi clan che ottengono il potere con il sangue, hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate, hanno marciato sulle loro case: invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze stravaganti ha qualcosa da insegnare a noi civilizzati occidentali. Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce… Nel mezzo blindo, all’interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili kamikaze avvistati, su possibili zone per imboscate, nient’altro nell’aria. Consci che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle 6 tonnellate del nostro Lince. Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l’ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio… Veniamo accolti dai bambini, che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: sono pieni di fame… Poi li guardi: sono senza scarpe, scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio nudo ha già vestito più di qualche fratello o sorella. Dei loro padri e delle loro madri neanche l’ombra. Il villaggio è un via vai di bambini, han tutta l’aria di non essere lì per giocare… Non sono lì a caso, hanno quattro, cinque anni i più grandi massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene: sotto c’è un asinello stracarico. Porta con sé il raccolto, i bambini stanno lavorando e i fratelli maggiori, si intenda non più che quattordicenni, con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di pecore ne sa qualcosa. Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci guarda, dalla barba gli dai sessanta o settant’anni, poi scopri che ne ha al massimo trenta. Delle donne neanche l’ombra, quelle poche che tardano a scappare al nostro arrivo al villaggio indossano il burka integrale: ci saranno quaranta gradi all’ombra. Quel poco che abbiamo con noi glielo lasciamo.

Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempirsi bene le tasche e il mezzo di acqua e viveri: non serviranno certo a noi. Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati. Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: brutta cosa, beato ti che non te la vedarè mai. Ed eccomi qui, nella Valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Nonno, se tu potessi ascoltarmi ti direi Visto, nono, che te te si sbaià”.

Anna Bianchini