Immaginate di stare a 45 gradi con attorno solo sabbia e il nulla. È il deserto, quello del Sahara, che un giovane di Lusiana Conco, Stefano Bertuzzi, ha affrontato a maggio con altre 10 persone. Otto giorni in Tunisia a bordo di altrettante Defender, che Bertuzzi non solo ama ma le acquista quando sono a pezzi e le ridà vita nuova nella sua officina. Come avete capito, adora i motori e le avvenure, tanto da far sapere di voler tornare in Africa già quest’autunno: è una terra che gli è entrata dentro.
Stefano, com’è stata questa spedizione nel Sahara?
«Siamo partiti il 14 maggio per rientrare il 23 dello stesso mese. Abbiamo raggiunto Genova, dove in tragetto siamo arrivati a Tunisi. Poi abbiamo percorso 500 chilometri per raggiungere Douz, la cosiddetta “porta del Sahara”, l’ultimo villaggio prima di entrare nel deserto. Da qui, abbiamo percorso 600 chilometri tra dune e sabbia sino al confine con l’Algeria. Siamo tornati a Tunisi e rientrati in aereo in Italia. Fisicamente è stata molto dura, immaginavo un’esperienza più “leggera”».
Com’era composto il gruppo?
«C’erano persone del Nord Italia, più un paio di miei clienti di New York, oltre alla guida Claudio Chiodi, uno che gira il mondo e con esperienze del genere. Perché io e gli altri non ne avevamo proprio».
Come si siete preparati a un’avventura del genere?
«A dire il vero, ho letto un po’ di cose in internet, informandomi su cosa portare di abbigliamento per affrontare il grande caldo. Sa, qui a maggio si stava a meno di 20 gradi, mentre lì si era sui 45-47 di giorno, per scendere a 25 di notte. Inoltre mi serviva sapere la dotazione di provviste».
Già, le provviste. Come vi siete organizzati, sapendo che non avreste trovato villaggi in successione?
«In effetti, abbiamo percorso 500 chilometri senza trovare nessuno. Anzi, abbiamo trovato un beduino solitario in un’oasi naturale che ci ha preparato del tè. In cambio gli abbiamo lasciato qualcosa da mangiare».
Com’era formata la vostra dispensa?
«Avevamo degli integratori e caricato decine di litri di acqua. Ciascuno di noi, a turno, ogni giorno doveva garantire dieci litri di acqua per mangiare e lavarsi. Per l’abbigliamento, avevano magliette di cotone a maniche corte e pantaloni lunghi. Questo perché la sabbia tende ad appiccicarsi ed è sconsigliato. Per dormire, le tende erano da tetto da mettere sulle Defender».
Com’era la giornata?
«La sveglia era molto presto, perché alle 7 del mattino le temperature ruotano attorno ai 30 gradi e si rischia di cuocere in tenda. Poi colazione e ci si metteva in auto. La sera, verso le 19 era già buio e il tramonto volgeva in modo molto veloce».
Com’è guidare tra le dune e la sabbia?
«Impegnativo. Un giorno abbiamo percorso appena 10-12 chilometri perché le auto si affossavano, ci si doveva trainare sotto il sole. Con il caldo, la sabbia diventa come la farina e si sprofonda. Inoltre ci sono dune alte anche 5-700 metri, ovviamente molto impegnative come quelle da 30-40 metri in rapida successione».
Ci racconti qualche aneddoto. Immagino che in dieci giorni qualcosa di interessante possa essere capitato…
«A una nostra auto si è rotta la trasmissione e abbiamo dovuto attendere un giorno mezzo per ripartire; con il Gps abbiamo chiamato in villaggio dove c’era un meccanico, aveva i pezzo di ricambio e di notte abbiamo riparato il danno. Ricordo che abbiamo lavorato sino alle 3, per dormire poche ore e rimettersi in viaggio la mattina presto».
Per mangiare e lavarsi?
«Chiodi aveva un frigo molto fornito, con tanto di spaghetti, guanciale, pecorino e uova. E così una sera, con il fornello a gas, ci siamo fatti una bella carbonara. Beh, ci siamo trattati bene con il cibo, almeno una volta. Avevo portato un doccino per lavarci un po’, anche se siamo riusciti a fare un bagno in un’oasi naturale».
Ha intenzione di ripetere l’esperienza?
«Sì, lo farò presto, già in ottobre. Adesso ho capito cosa significhi il “mal d’Africa” e mi piacerebbe fare un giro più lungo. Ci siamo fatti un po’ di esperienza e torneremo».
Alessandro Ragazzo