Il suo ‘Libera nos a Malo” è forse l’opera che più lo lega alla sua città natale di cui con l’arguzia e l’intelligenza che lo contraddistinsero, scrisse immortalando quel microcosmo pronto a lasciarsi alle spalle il retaggio di una tradizione ancora contadina per proiettarsi al futuro.
Ma Luigi Meneghello, maladense doc classe 1922, scrisse molti altri libri: da ‘I piccoli maestri’ a ‘Il dispatrio’ fino a ‘Bau-sete!’ e ‘Pomo pero’, mai pago di sperimentare e giocare con le parole, miscellandole sapientemente fra neologismi e modi di dire tipicamente dialettali a lui tanto cari.
Un uomo forse poco conosciuto al grande pubblico se non nei suoi ultimi anni anche grazie al lavoro televisivo con Marco Paolini, ma fu amatissimo dalla critica.
L’ Associazione che porta il suo nome, ma anche molta gente comune della ‘sua’ Malo è già al lavoro per preparare il centenario di ‘Gigi’ Meneghello che di sé stesso scriveva: “Io volevo soprattutto imparare, nella vita, invece mi sono trovato a insegnare. Ho insegnato letteratura italiana all’università di Reading nella valle del Tamigi. Ho continuato inoltre a studiare e scrivere, confondendo un po’ i due processi; e ho poi lasciato l’insegnamento, nel 1980, per confonderli con più comodo. Ho pubblicato dei libri nei quali, come in tutto ciò che studio e scrivo, cerco di giustificarmi la natura delle cose, se c’è.”
Di lui molti colsero l’ironia al punto da definirlo “uno dei pochi ricercatori e letterati del nostro tempo che sa far ridere”, ma Meneghello fu anche e soprattutto un fine e malinconico osservatore del mondo nelle sue evoluzioni spesso incomprensibili e talvolta incoerenti: viaggiatore sì – per trent’anni insegnò in Inghilterra – ma radicato visceralmente al suo essere italiano e veneto, portabandiera di una ‘dialettalitá’ mai gridata: “Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto”.
Marco Zorzi