Il Veneto in fatto di allevamenti ovicaprini, con 4270 capi controllati in 40 allevamenti, è al quinto posto dopo Piemonte (41 allevamenti), Lombardia (73), Sardegna (137) e Calabria (232), ma i numeri non devono affatto scoraggiare, in quanto portano ad una ricchezza ineguagliabile in termini di biodiversità e produzioni di nicchia”. Con queste parole il prof. Massimo De Marchi del Dipartimento Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse naturali e Ambiente dell’Università di Padova è intervenuto questa mattina ad AGRIMONT, in occasione del convegno: “L’allevamento ovicaprino nel Veneto tra innovazione, sanità, tutela delle biodiversità e predazioni” promosso da ARAV al Centro Congressi Longarone Fiere Dolomiti, introdotto da Michele Dal Farra, presidente di Longarone Fiere Dolomiti e Milo Veronese, presidente dell’Assemblea Allevatori di Belluno, e moderato dal direttore di ARAV, Walter Luchetta.
“ARAV, Lattebusche ed Università di Padova (DAFNAE), con la collaborazione di quattro aziende agricole rappresentative del territorio – ha evidenziato il prof. De Marchi – stanno lavorando ad un progetto preliminare ad altre iniziative mirate, che si propone di effettuare una mappatura della popolazione ovicaprina esistente in Veneto, per favorire una rete di connessione, informazione e trasferimento tecnologico tra allevatori, latterie, mondo della ricerca e tecnici”.
Alpagota, Foza, Lamon e Brogna sono le razze ovicaprine autoctone attualmente diffuse in Veneto, come ha spiegato il dr. Valerio Bondesan dell’UC Allevamenti, Veneto Agricoltura, che nell’evidenziarne la presenza, ha posto l’accento, in particolare, sull’attenzione da prestare ai montoni ed all’alto rischio di consanguineità negli allevamenti. “Il Centro di conservazione delle razze ovine venete, a Villago – Sedico (Bl) – ha spiegato Bondesan – si propone di creare dei riproduttori ideali, che mette a disposizione degli allevatori per garantire un futuro sostenibile per chi decide di dedicarsi agli ovicaprini. Va considerato, infatti, che un montone può essere utilizzato in una stalla al massimo per uno o due anni, per evitare la consanguineità, che può essere origine di serie patologie”.
E sul tema delle malattie è intervenuto il Roberto Costantin del Servizio Veterinario di Sanità Animale dell’ULSS 1 Dolomiti, che ha svelato i risultati dell’indagine sulla popolazione su Alpagota e Lamon del 2023 per la resistenza alla Scrapie, una malattia neurodegenerativa appartenente al gruppo delle encefalopatie spongiformi trasmissibili.
“Contro la Scrapie si può solo agire in via preventiva – ha spiegato Costantin – in quanto si tratta di una malattia diagnosticabile unicamente post-mortem. Per questa ragione è fondamentale procedere con la genotipizzazione della razza, come abbiamo fatto in sede di indagine. Ed il risultato è stato inequivocabile, al di là dei numeri: la conoscenza della genetica di resistenza di due razze locali a rischio di estinzione è fondamentale per tutelare il patrimonio zootecnico, soprattutto delle piccole realtà montane. Incentivare la ricerca e l’utilizzo di maschi meno sensibili alla malattia per la riproduzione, quindi creare dei gruppi di monta per eliminare, almeno in teoria, dalle razze i genotipi più sensibili. E, naturalmente, favorire il commercio degli animali riprodotti ed aumentare il livello di certificazione genetica del gregge”.
Consapevolezza, prevenzione e ricorso al veterinario sono i concetti chiave su cui si è soffermato il dr. Massimiliano Gatti, Medico Veterinario Libero Professionista, che ha parlato della sanità del gregge attraverso un oculato utilizzo dei farmaci veterinari, frutto, appunto, di un’attenta, dinamica prevenzione. “Prevenzione significa senza dubbio guadagno – ha sottolineato il dr. Gatti – in quanto controllare il problema prima che si diffonda, conoscere i patogeni presenti in azienda, quindi disporre trattamenti mirati, significa minor latte eliminato, benessere degli animali e, di conseguenza, maggior produzione”.
A chiudere il cerchio l’intervento del dr. Emanuele Pernechele dell’Ufficio della Direzione Agroambiente, Programmazione e Gestione ittica e faunistico-venatoria dell’U.O. Pianificazione e Gestione faunistico-venatoria della Regione Veneto, che ha affrontato un tema di estrema attualità: la diffusione degli animali selvatici, erbivori e carnivori, ed i conseguenti importanti danni determinati al mondo agricolo ed allevatoriale. “Il Veneto – ha spiegato il dr. Pernechele – è densamente popolato dai lupi, che sono diffusi in oltre il 20% del territorio regionnale, con 15 branchi. Ed è notizia recente dell’avvistamento ripetuto di un branco di almeno cinque esemplari anche in Polesine, area in cui la razza non era mai stata avvistata in precedenza. Una situazione che deve preoccupare e non può lasciare indifferenti le istituzioni. La Regione ha di fatto le mani legate, occorre agire a livello di Unione Europea. Recentemente la Commissione ha proposto al Consiglio europeo la modificazione dello status di protezione del lupo da specie altamente protetta, al pari dell’aquila, a specie protetta, un atto di indubbia intelligenza”.
La presenza del lupo si fa decisamente sentire, basti pensare che le predazioni nel 2021 sono state 989, di cui 703 ovi-capirni e nel 2022 823, di cui 530 ovi-caprini. “Non possiamo pensare che si possa arrivare alla eradicazione della specie com’era accaduto nel 1800 – ha concluso Pernechele – ma non si può neppure restare a guardare i danni che questo animale mette a segno quotidianamente, arrivando a colpire in zone sempre più urbane e, persino, attaccando gli animali domestici”.
Di certo bisognerà trovare il mondo per rendere il lupo il meno innocuo possibile. “Il nostro lavoro è mosso da una grande passione – ha concluso il presidente di ARAV, Floriano De Franceschi – ma non possiamo essere abbandonati e, soprattutto, riteniamo che i nostri animali meritino almeno la stessa considerazione del lupo, tanto più che danno vita a dei prodotti fondamentali per la vita umana. L’avvicinamento del lupo ai territori urbani deve spaventare e richiamare l’attenzione di ciascuno, anche dei cittadini, perché si tratta di una minaccia concreta per tutti, nonché per la nostra economia e per l’indotto turistico di cui andiamo fieri anche grazie alla biodiversità delle razze ed al patrimonio di produzioni lattiero-casearie”.