Una persona semplice, che ama l’orto, la musica e i libri. L’immagine classica di un galantuomo inglese calza a pennello su Roberto Brazzale, che però è molto di più. Classe 1962, e industria nel dna.

Ama tutto il vino: frizzante o fermo, considera la musica classica una palestra mentale ed è un imprenditore la cui fama supera i confini della sua regione.

La sua famiglia produce formaggio e burro da generazioni, ma l’espansione verso il mondo è storia più recente e lui ne è il pioniere. Oggi l’Italia è solo una sedi dell’azienda, che lavora in collaborazione con gli stabilimenti in Brasile, Repubblica Ceca e Cina. Perché per Brazzale la vera sfida  per ogni generazione  sta nel capire come e dove l’impresa può crescere e creare occupazione interpretando ogni diverso momento storico per le opportunità che offre. Un imprenditore moderno, che ama rapportarsi con il mondo, ma è convinto di una cosa: “per ogni processo di riordino e risanamento dell’Italia, la precondizione è uscire dall’euro”.

brazzale-redazionali-l_anima_degli_imprenditori-938x657Brazzale, c’è differenza tra essere un imprenditore in Veneto ed esserlo nel resto d’Italia?

Il mestiere di imprenditore è uguale dappertutto, ma esserlo in Veneto oggi è molto difficile:  valuta tedesca, tassazione e costi di sistema italiani, sistema bancario disastrato dall’eurodeflazione. Il Veneto è l’epicentro del disastro di Eurolandia. C’è un’alta densità di piccole e medie imprese, le più sfruttate e bistrattate, nonostante rimangano il motore dell’economia e della ricchezza italiana.

Lei ha avuto l’intuito di aprire alcune sedi all’estero. Per questo è stato apprezzato ma anche criticato…

Abbiamo solo colto le straordinarie opportunità di sviluppo dei nostri tempi, generate dal collasso del Patto di Varsavia e dalla caduta delle barriere commerciali. Il più grande processo di pacificazione e cooperazione tra popoli di tutti i tempi. Si è potuto fare altrove e meglio il proprio mestiere, a favore del consumatore. I veneti, per cultura e tradizione sono più vocati a guardare fuori dall’Italia. Siamo coraggiosi e liberi. Piazza San Marco guarda al mondo slavo e l’oriente, spalle all’occidente. Abbiamo un legame storico con l’impero asburgico. Ci critica chi non vuole i cambiamenti e la concorrenza, per spremere i consumatori come gli pare. Per noi il consumatore è al centro, e dobbiamo inventare nuove combinazioni per offrirgli prodotti più buoni e convenienti. I nostri antenati compirono passi analoghi ma ancor più coraggiosi quando scesero dall’Altopiano di Asiago a Zanè o da Zanè a Camisano per produrre il grana, inseguendo le condizioni ideali per produrre.

Perché ha deciso di delocalizzare? 

Nessuna delocalizzazione bensì sviluppo internazionale. Improvvisamente si sono rese disponibili terre fertili, clima ideale e zootecnie di altissimo livello. Abbiamo scoperto che lì si poteva fare il grana più buono, più conveniente, secondo standard ecologici e di benessere animale impossibili in Italia. Nessun processo produttivo italiano è stato ridotto, anzi. Triplicando la produzione di formaggi grazie alla Moravia abbiamo raddoppiato gli occupati in Italia, più specializzati. Non si può crescere in un luogo già saturo, incapace di offrire nuova materia prima, sovraccarico di impianti e bisognoso di immigrazione, come l’Italia. Bisogna proiettarsi in zone nuove, dove è possibile uno sviluppo virtuoso. I processi devono essere allocati in modo ottimale, dove ci sono le caratteristiche adatte. La vera delocalizzazione, in senso negativo, è stata quella degli esseri umani. Milioni di immigrati verso Italia e Veneto per riempire i capannoni costruiti oltre ogni limite di buon senso, sfregiando il territorio, oggi in buona parte vuoti.

brazzale-news-2012-occhio_alla_spesaChe cosa penalizza l’economia? E cosa penalizza l’economia veneta?

Senza ombra di dubbio la moneta unica. Il Veneto ne ha sofferto di più perché regione intraprendente: la bolla è cresciuta e scoppiata qui più che altrove. Nella prima fase dell’euro, i veneti hanno intravisto occasioni di sviluppo ed hanno attinto a piene mani al fiume di prestiti che arrivava dal nord Europa dato che il rischio cambio era sparito, denaro investito in aziende, beni durevoli ed immobili. Con la seconda fase, quella del credit crunch (stretta creditizia), i finanziatori nordici sono fuggiti ed il sistema bancario si è trovato con una montagna di crediti in sofferenza nel momento in cui la produzione precipitava a causa della perdita di competitività di cui è causa lo stato italiano e le riforme mai avvenute. L’euro è una vera sciagura per le aree esportatrici come la nostra, perché fissa il cambio con la Germania senza averne le virtù. E’ insostenibile, penalizza il sistema produttivo a favore delle rendite, premia i titoli di stato e chi vive di debito pubblico.

In barba a  chi critica, il suo Gran Moravia è stato preso come nuovo modello di business per l’agroalimentare italiano anche se è fatto in Repubblica Ceca e l’università di Venezia l’ha chiamata in cattedra…brazzale

Alla base c’è uno studio rigoroso. L’Italia ha poca superficie agricola utilizzabile che è saturata ed in continuo calo, molta popolazione (4,7 abitanti per ettaro contro i 2,9 del resto d’Europa) e da sempre ha una forte vocazione all’export di prodotti alimentari di pregio. Senza importazione un terzo di italiani resterebbero a digiuno. Perché non realizzare noi italiani quei prodotti intercettando i processi all’estero? Potremmo così anche far crescere il comparto agroalimentare che ha potenzialità illimitate, aumentando di pari passo l’export e permettendo la creazione di moltissimi posti di lavoro veri. Quella del Gran Moravia è considerato un modello perché una catena produttiva che inizia in Repubblica Ceca e si completa in Italia, ed oltre il 40% del valore finale del prodotto è realizzato in Italia: stagionatura, confezionamento, commercializzazione, marketing, logistica, export, ecc. Il non comprendere che si deve usare materia prima straniera per produrre di più, non potendo crescere quella italiana, significa sprecare un’enorme opportunità di crescita, regalarla ad altri. Il concetto di ‘made in Italy’ deve trasformarsi in quello di ‘prodotto italiano’, in cui fattore umano, territorio e tecnica produttiva si combinano in modo vario, e non soltanto con riferimento al territorio.

E a chi dice che si tratta di ‘italian sounding’ (prodotto che si vende come italiano ma è fatto altrove), ma non di ‘made in Italy’ che cosa risponde?

E’ l’ultima pretesa dei protezionisti, una stupidaggine. Wurstel, Hamburger, Speck o Pilsen sono parole ‘german sounding’, ma nessuno si sogna di contestarne l’uso fuori dalla Germania, perché sono termini generici. Ovviamente non stiamo parlando dei casi di frode, peraltro rari. L’italian sounding, come ‘pizza’ o ‘pasta’ o ‘Parmesan’, aiuta a conservare interesse per i nostri prodotti nel mondo. Vendere l’originale sarà poi più facile. Detto questo, il Gran Moravia non è ‘italian sounding’, ma vero e proprio ‘prodotto italiano’, cioè prodotto della cultura, cucina e tecnica italiana, realizzato in Repubblica Ceca da italiani per consumatori italiani o della cucina italiana. Il nome stesso dichiara la provenienza ed ha l’etichettatura più precisa al mondo, che arriva fino alla mappa Google delle fattorie. Ci mancherebbe che non potessi usare la mia lingua per spiegarlo. Dovrei usare il ceco? I concorrenti italiani sono in difficoltà perché il Gran Moravia è un concorrente temibile e non sanno più cosa inventarsi contro un prodotto che è più buono, più conveniente ed ecosostenibile. Il consumatore è molto più avanti e ci premia.

L’economia italiana sta soffrendo, è innegabile. Ci sono realtà che vanno bene, ma ci sarebbe bisogno di una bacchetta magica per risanare tutto. Che ne pensa?

Non serve una bacchetta magica, ma scelte coraggiose e lucide. L’Italia ha bloccato il cambio con il marco vent’anni fa e la mancanza di aggiustamenti valutari ha massacrato il suo sistema produttivo. La svalutazione alleggeriva e compensava le nostre merci dalla zavorra di un sistema malato che non riesce e non riuscirà mai a riformarsi. Per interrompere questa folle spirale, identica a quella sofferta negli anni trenta, dobbiamo uscire dall’euro prima possibile, e poi regolare i conti all’interno, magari con una forte dose di autonomia o indipendenza dei territori. Conditio sine qua non per ogni processo di riordino e risanamento è, comunque, uscire dall’euro senza ulteriore ritardo e nazionalizzare le banche che lo necessitano. Lo stato italiano lo deve per rimediare ai suoi errori.

Ma per coordinare l’economia dell’Europa e del mondo in modo migliore, non è meglio avere l’euro?

Pura ingenuità e incompetenza. Per prosperare non serve avere la moneta in comune, anzi. La Repubblica Ceca, per esempio, pur se nella UE ha conservato la sua moneta ed è un paese sano, in forte crescita. Far entrare l’Italia nell’euro è stata un’incoscienza che danneggia tutti. Secondo i patti, l’Italia avrebbe dovuto diventare una specie di Germania, ma ciò non ha senso. I tedeschi sono diversi, deflattivi: la loro “economia sociale di mercato” ritiene che la concorrenza e non il debito faccia crescita; noi, inflattivi, riteniamo che il debito pubblico e l’enorme spesa pubblica facciano crescita, una versione maccheronica di Keynes. Studiando i dati abbiamo scoperto una costante di divergenza tra le nostre valute. L’attuale valore del “marco tedesco” non è 989,89, bensì 1.650 lire, e questa sarebbe la grandezza della svalutazione uscendo dall’euro oggi. Chi ha pensato che l’euro ci costringesse ad essere virtuosi è stato smentito, anzi, stiamo trascinando nel baratro i tedeschi con la sciagurata politica monetaria di Draghi. Non sanno più come uscire da questo folle esperimento. Gli inglesi, dal grande talento economico e politico, non sono mai entrati nell’euro e ora sono addirittura usciti da questa sgangherata Unione, che ha commesso errori gravissimi. Margareth Thatcher, con la sua intelligenza, quando nel 1993 dovette decidere se entrare nell’euro rispose con il celeberrimo “no!, no!, no!”.

 

robertobrazzale_presidente-460x360Tanti politici e rappresentanti di categoria non la pensano come lei…

Mi preoccuperei del contrario. Politici che capiscano qualcosa in materia ce ne sono davvero pochi, fortunatamente uno l’abbiamo in zona, e le associazioni di categoria hanno una responsabilità enorme nella crisi che devasta la nostra terra. Non vogliono riconoscere le vere cause della crisi, ne sono complici.

Ma lei è consigliere di Confindustria nel mandamento Thiene-Schio …

Non più. Ritenendo non più sanabile il contrasto e irriformabile la situazione, lo scorso anno ho lasciato il mio incarico dopo che da Vicenza ci era stato proibito tassativamente di parlare di banche; l’anno prima avevo denunciato invano i gravi conflitti di interesse dei vertici di Confindustria  presenti in consiglio della Banca Popolare di Vicenza ed avevo contestato il collocamento a debito degli aumenti di capitale presso gli associati anche contro la loro volontà. E’ stato un fatto di gravità inaudita, di dimensioni imponenti che ha colpito centinaia di imprese e famiglie. Protestare non serve a nulla, oggi l’associazione vicentina è un fortino autoreferenziale, cooptativo, asservito alla corporazione nazionale, privo di una vera dialettica interna, senza reale osmosi con la realtà del territorio. Costa moltissimo agli associati, rappresenta ormai solo se stessa e la casta che la occupa e, a parte l’erogazione di alcuni validi servizi, non ha un ruolo di vera utilità per l’industria, vedi l’insensata adesione all’euro, finendo invece per costituire un cardine del consociativismo che ha portato l’Italia al disastro. A dispetto delle dichiarazioni, è un sistema ostile all’innovazione sociale ed economica e alla concorrenza, fondato sulla simbiosi di consorteria più che sulla dialettica virtuosa. Riesce a controllare perfino la stampa e la televisione locale: un’assurdità che, tra l’altro, ha impedito la formazione di un’adeguata informazione tra la popolazione vicentina in materia di banche. Oggi Confindustria e le altre associazioni di categoria dovrebbero farsi sentire con forza contro l’ipotesi di smantellare sbrigativamente il sistema bancario veneto e contro l’ipotesi di fusione tra le popolari, progetto che avrà un ulteriore duro impatto sul territorio e ridurrà la concorrenza tra istituti. Invece c’è il silenzio. Purtroppo, in provincia, da parte di noi associati sembra non esserci alcuna reazione, sembra si accetti tutto passivamente. E’ incredibile che, dopo il disastro della Popolare di Vicenza, i vertici di Confindustria non si siano dimessi o non siano stati destituiti, e che non si sia aperto un dibattito autocritico coraggioso, ripensando il senso dell’associazione e la sua formula organizzativa, anche a costo di configgere con quella nazionale. Il veleno del sistema consociativo è forte anche nella nostra provincia e sta cercando di sopravvivere alla caduta delle banche. Inutile poi prendersela con la politica: almeno i politici sono esposti alla verifica del voto, pratica in totale desuetudine in Confindustria.

In tutto questo, come vede gli investimenti sulle infrastrutture? Pedemontana e Valdastico Nord ad esempio. Si devono fare sì o no?

Certo che sono da fare e sono in ritardo di decenni, e sembra che rischiamo di aspettarle ancora a lungo. Ma qui si tocca il nervo scoperto. Il Veneto è una regione fortemente produttiva. Con le nostre tasse, potremmo pagarcene una o due l’anno di infrastrutture così, senza fare debiti, solo con i nostri soldi. Così come potremmo ricapitalizzare da soli le nostre banche. Ma lo stato italiano ci alleggerisce ogni anno di circa venti miliardi per poi trasferirli ad altre regioni: i trasferimenti sono un male per chi li subisce e per chi ne beneficia. E’ come la droga: ricevere così tanti soldi atrofizza le capacità di sviluppo di un territorio, che finisce per specializzarsi nell’intercettare i flussi di ricchezza trasferiti, piuttosto che a produrli. Lo stesso è diventata l’Europa di Draghi: un colossale apparato di trasferimento di soldi tra territori, tra Germania e paesi periferici come Italia e Spagna, attraverso l’acquisto dei titoli di stato da parte della BCE.

L’idea di un popolo libero è un concetto ricorrente oggi. Che cosa intende esattamente?

Lo stato nazionale risorgimentale, unitario, oggi ha esaurito il suo significato. Gli stati più efficienti sono organizzati con forte autonomia dei territori oppure sono stati indipendenti di dimensioni contenute: pensi a Israele, Olanda, Corea del Sud, Repubblica Ceca, Singapore, solo per citarne alcuni. La Repubblica Italiana è fallita, nemmeno il vincolo esterno europeo è riuscito a farla cambiare in meglio. E’ un’esperienza storica che ormai ha fatto il suo tempo. Se ne prenda atto senza tragedie, come riescono a fare in Gran Bretagna, come si è fatto in Cecoslovacchia. L’Italia non può risanarsi senza essere ripensata nella sua struttura territoriale per liberare le formidabili energie che possiedono le diverse popolazioni che la abitano. Il Veneto potrebbe costituire un Land con forte autonomia o uno stato indipendente: ne beneficerebbe per primo il sud, che a sua volta ha una forte anima autonomista e grandi energie oggi avvilite dai trasferimenti. Questa è la direzione verso la quale la storia si sta muovendo, e questi saranno i temi politici più urgenti da affrontare nei prossimi anni, dopo che l’euro sarà collassato.

A parte economia e imprenditoria, che cosa piace a Roberto Brazzale?

I libri, la storia, l’orto e le colline, la vita in casa, l’altopiano. Seguo l’arte, mi piacciono le cose belle. La musica riempie da sempre la nostra vita ed ora anche i miei figli sono musicisti.

Nelle sue vene, c’è più l’arte della mamma (musicista classica a livello internazionale) o il pragmatismo del papà?

In realtà anche mio padre, chimico industriale, amava l’arte.  Era stato definito da una rivista ‘letterato per vocazione, industriale per necessità’. Grazie a mia madre, fin da bambini  abbiamo girato il mondo seguendo i suoi concerti, cosa che ci ha poi aiutato nell’internazionalizzazione dell’azienda. Tutti abbiamo studiato musica che, poi, è uno studio utile quanto quello della ragioneria: l’imprenditore deve combinare armonicamente fattori produttivi, soprattutto risorse umane, come il direttore di un’orchestra sinfonica. Leibniz definiva la musica ‘una pratica occulta dell’aritmetica, dove l’anima non sa di calcolare’.

Vino fermo o vino frizzante?

Perché escluderne uno? Cominciamo con vino frizzante (…sorride), poi passiamo a quello fermo: è sempre meglio iniziare da qualcosa di più leggero e stuzzicante.

Anna Bianchini

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