E’ morto ieri Muhammad Ali, il pugile più grande che il mondo abbia mai conosciuto. E’ morto a 74 anni. Da oltre 30 anni soffriva del morbo di Parkinson, che nel corso de tempo ha reso fragili quei muscoli d’acciaio grazie ai quali, dai ring di tutto il mondo, Cassius Clay (questo il nome di nascita) ha messo al tappeto i suoi rivali.
Definito il più grande sportivo del secolo scorso, c’è chi lo proclama il più grande di tutti i tempi.
Muhammad Ali non è stato solo un pugile, ma anche un o strenuo difensore dei diritti umani e ha messo alle corde perfino la sua malattia.
Nel 1996, ad Atlanta, fu proprio lui, tremante per il morbo di Parkinson, ad accendere la fiaccola olimpica, vincendo la più bella gara della sua vita e dimostrando di non aver paura di mostrarsi debole e malato.
Immenso Cassius Clay, che tutti ricordano perché sapeva ‘volare come una farfalla e pungere come un’ape’.
Nei suoi anni d’oro aveva il mondo in mano e proprio con quelle mani di roccia ha conquistato il mondo diventando la leggenda assoluta del pugilato. Ma nella vittoria più difficile, quella contro Joe Frazier, ha ammesso che se il rivale non avesse abbandonato il ring, probabilmente lo avrebbe fatto lui.
Cassius Clay usava il termine ‘negro’ per definire sé stesso, irridendo il perbenismo di un’America conservatrice e incapace di accettare che il campione del mondo dei pesi massimi rifiutasse di ‘onorare’ la patria ricordando la guerra del Vietnam. ”Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro”, aveva detto Muhammad Ali, suscitando scalpore nel mondo a stelle e strisce.
”I campioni non si fanno nelle palestre – ha detto Cassius Clay – I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”.
Gli avversari Larry Holmes e George Foreman hanno combattuto con lui i match più importanti nella vita di Ali e proprio loro sono intervenuti al suo fianco quando, lo scorso ottobre, ‘Sports Illustrated’ attribuì al più grande pugile di tutti i tempi un tributo.