Un uomo intelligente, fortunato, imprevedibile e simpatico. Non serve molto per descrivere Battista Busin, figura di spicco dell’imprenditoria thienese. 76 anni, di Zanè, segno zodiacale acquario. Sognatore pragmatico, istrionico realista, gentile caterpillar. Un uomo vecchio stampo, di quelli nati per fare la differenza e per farti capire che la mediocrità è puro fastidio. Uno di quelli che quando ce l’hai davanti non sai se ti racconterà una barzelletta o ti svelerà l’origine dell’universo.
Sorride sempre, ride forte, serve il caffè, anche da seduto non sta fermo un attimo e parla sovrapponendo un milione di argomenti. Ma possiede la caratteristica di tutti i numeri 1: anche mentre è dentro una centrifuga che gira a mille, non perde mai né l’equilibrio né il filo del discorso.
Busin, che uomo è lei?
Ho 76 anni, ma solo all’anagrafe. Sono un fervido sognatore, ma sono molto concreto e nei miei sogni identifico velocemente i punti fermi e le chiavi necessari per trasformarli in realtà.
Com’è nata la sua azienda, il suo ‘impero’?
E’ nato tutto per gioco, un giorno che ero andato a ballare con due amiche a casa del loro zio. Dopo 10 anni da dipendente nel settore della ricostruzione dei pneumatici, chiacchierando con lui ho espresso la volontà di mettermi in proprio. Ma non avevo niente, neanche un soldo, avevo solo gli occhi che brillavano dal desiderio di provarci. Questa persona ha creduto in me in quel preciso momento e mi ha messo a disposizione il suo capannone. Io ho ringraziato e ho cominciato.
Ma scusi, e i soldi? Oggi si chiederebbe un finanziamento, che a sua volta richiede garanzie…
Allora non esisteva la possibilità di ottenere finanziamenti da una banca. E in ogni caso io non avevo nessuna garanzia né proprietà immobiliare. Ho fatto le cose da incosciente e come unica sicurezza avevo un mio motto personale che dice ‘la volontà annienta il rischio’. Senza un centesimo, ho sottoscritto cambiali per 28 milioni di lire. Quando sono andato a firmarle, mia nonna mi ha prestato i soldi per i bolli delle cambiali, non avevo nemmeno quelli. Glielo ho restituiti pian piano, con 10mila lire al mese. Non avevo nulla, ero pazzo e irresponsabile. Ma sapevo che stavo facendo la cosa giusta e sono andato avanti. Bisogna sempre credere in quello che si fa.
Un imprenditore fai-da-te senza un penny. E’ l’icona della simpatia. Ma, parlando ora a bocce ferme, come ha fatto a farcela?
Ero un imprenditore nell’anima. E come tutti gli imprenditori ho corso i rischi del mestiere. E’ un ruolo che prevede di investire sul futuro, sul niente di certo. Ci metti i tuoi soldi e la tua anima confidando di fare le mosse giuste, poi se sbagli va a ramengo tutto. Io ho firmato un sacco di assegni senza sapere se li avrei potuti pagare, ma alla fine ce l’ho sempre fatta. Ricordo che un direttore di banca una volta si è alzato in piedi davanti a me e mi ha gridato in faccia “Signor Busin, ma si rende conto di essere un incosciente?”
Da come la racconta sembra che sia stata la fortuna a caratterizzare il suo successo, più che la sua testa.
La fortuna non va mai a caso. Il detto ‘la fortuna aiuta gli audaci’ non è casuale. E’ un caso fortunato se becchi un ‘gratta e vinci’ vincente, ma la fortuna in campo lavorativo arriva dalla tua testa e dai passi che fai. Per avere successo servono fortuna e spregiudicatezza, ma anche un grande rispetto per il lavoro e per le persone. In ogni caso ammetto che ogni volta che ho avuto un problema, il giorno dopo quasi per caso il destino mi forniva la soluzione in un piatto d’argento. Ma è una legge della natura. Se pensi bene arriva il bene.
E poi com’è andato avanti? D’accordo che erano altri tempi, ma non penso sia stato facile.
Reinvestivo tutto quello che guadagnavo. Al primo posto per me c’erano i miei clienti, che erano e sono ancora oggi il mio patrimonio. Ho sempre lavorato con grinta e umiltà, vedendo nel volto del cliente il mio fondo bancario. Sono passati 50 anni e la penso ancora così. Ho iniziato con la fabbrica di ricostruzione a Zanè e da zero sono arrivato a otto negozi e 120 dipendenti.
Con la frana del Vajont lei ha perso tutto. E ha dovuto decidere se fermarsi o andare avanti.
E’ stato un momento difficile. Ho iniziato la mia attività nel marzo del 1963 e i clienti che mi davano da vivere con la ricostruzione erano tutti nella zona di Longarone. Con la frana del Vajont ho perso il 95% dei clienti e dei soldi che dovevo incassare. Sono stato sul punto di fermarmi, anche perché ero molto provato emotivamente, ma poi l’incoscienza ha avuto la meglio. Un anno e mezzo dopo la tragedia, due miei clienti sono venuti in ufficio e mi hanno portato i soldi che avanzavo. Non sapevo se erano vivi o morti, non ho avuto più coraggio di sentire nessuno. Sono venuti loro, avevano perso entrambi tutta la famiglia, ma evidentemente non la dignità e la forza di andare avanti.
Qual è la maggiore differenza tra lavorare allora e lavorare oggi?
La tecnologia. Quando ho iniziato partivo in camion con un sacchetto di gettoni telefonici. Ogni 2 ore mi fermavo a una cabina e chiamavo in ufficio per sentire chi mi aveva cercato. Poi facevo il giro di telefonate ai clienti. Ogni 2 ore perdevo mezz’ora per telefonare. Non c’erano computer, cellulari, fax. Si faceva tutto a mano, con il supporto di calcolatrice e cervello. Poi si guadagnava di più. Oggi ci sono meno utili e più spese e per supplire la parte che manca bisogna implementare con nuovi servizi, soprattutto di tipo commerciale.
E poi non si pagavano le tasse come oggi, si pagava il dazio al comune, la politica era territoriale.
Che cosa deve fare un imprenditore per fronteggiare un problema? Quanto conta un titolo di studio?
Prima di tutto un imprenditore deve avere testa. Deve saper spremere le meningi e da questo arriva la soluzione a ogni problema. Il titolo di studio conta per essere un tecnico professionista, ma il titolo non deve ostacolare l’intraprendenza. Oggi ci sono fior fiore di laureati, ma trovamene uno che apra un’azienda sua. Lavorano quasi tutti come dipendenti, per conto di altri. Oggi è più facile prendere lo stipendio piuttosto che rischiare. E poi c’è il problema che oggi, se uno è nato ricco, ha paura di rischiare perché ha paura di perdere. Se uno invece è nato senza nulla, come è successo a me, è stimolato a cercare di crescere. A molti oggi manca lo stimolo.
Che cosa manca in questa società secondo lei, che ha visto cambiare molte cose nel mondo del lavoro?
Manca un progetto a monte. Oggi c’è troppa libertà e ognuno va per i fatti suoi. Servono dei progetti per regolamentare lo sviluppo, in qualsiasi settore. E servono persone disposte a mettere in pista le loro idee per realizzare nuove invenzioni. Ai miei tempi le ruote dei carri di campagna erano di ferro. Io non ho studiato, ma ricordo che ho convinto un contadino a montare ruote di gomma grosse sul suo carretto. L’avevo visto fare dagli americani. Gli ho spiegato che erano più leggere e non sarebbero sprofondate nella terra o nel fango. Ancora oggi vedo carretti con le mie gomme.
Cosa consiglia a un giovane?
Se è sicuro del suo progetto deve provare a realizzarlo. Le risorse arrivano. Si inizia con poco, ma se si è convinti poi le cose accadono.
Rimpiange qualcosa dei ‘bei tempi andati’?
Rimpiango l’orto, le galline, la frutta negli alberi. Lo so che detto da me può sembrare ipocrita, ma sono convinto che bisognerebbe saper fare un passo indietro e tornare ad apprezzare le cose di un tempo. La famiglia, l’orto, il camino, il profumo di casa.
Busin, è un piacere starle davanti perché lei ha sempre il sorriso sulle labbra, ride in maniera contagiosa ed è una fonte inesauribile di buonumore.
Ha dimenticato una cosa. Dove vado, porto il sole. Se a Thiene piove, significa che io sono fuori città. Lo sanno tutti i miei amici. E’ per questo che fanno sempre a gara per avermi in vacanza con loro.
Anna Bianchini