In Cina, le fabbriche non dormono mai. Né accendono più la luce. Si lavora al buio, con bracci meccanici che saldano, assemblano, lucidano. E nessuno si lamenta. La nuova frontiera della manifattura cinese è un esercito silenzioso e instancabile di robot alimentati dall’intelligenza artificiale, il vero asso nella manica di Pechino nella partita a scacchi della guerra commerciale.
La rivoluzione industriale 4.0 cinese non è una moda o un progetto pilota: è già produzione di massa, racconta il New York Times. Secondo la Federazione Internazionale di Robotica, solo Corea del Sud e Singapore superano la Cina nel numero di robot per operaio nel settore manifatturiero. Gli Stati Uniti? Superati. La Germania? Dietro. Il Giappone? Sorpassato in curva.
Il governo ovviamente nelle ultime settimane ha rilanciato: politiche aggressive, investimenti faraonici e un piano chiamato “Made in China 2025” che, tra le altre cose, vuole fare della robotica quello che l’auto elettrica è già diventata. Risultato? Oggi un braccio robotico che quattro anni fa costava 140.000 dollari, ora ne costa meno di 40.000. E salda 24 ore su 24, senza ferie, malattie o pause caffè.
Il caso della fabbrica Zeekr a Ningbo è emblematico: da 500 a 820 robot in quattro anni. E si prevede di raddoppiare. Qui i carrelli robotizzati trasportano lingotti di alluminio, e le linee di assemblaggio sono così automatizzate che possono lavorare letteralmente al buio. “Dark factories”, le chiamano. L’umanità serve solo per limare i dettagli, passare la mano sulla carrozzeria e controllare che i robot non sbaglino.
Anche le officine più modeste – quelle che producono forni a basso costo a Guangzhou, ad esempio – stanno investendo in bracci robotici “intelligenti”. Non è più un lusso, è sopravvivenza industriale. Un umano lavora 8 ore, magari dieci. La macchina, 24. Dietro c’è anche un’urgenza demografica: meno nascite, più universitari, e sempre meno giovani disposti a passare la vita in fabbrica. Il dividendo demografico è esaurito, e ora si gioca tutto sulla produttività.
Se Trump s’è buttato in una assurda gara al sovranismo industriale senza tener conto che negli Stati Uniti mancano gli operai, la Cina è tre passi più avanti. Peraltro in Cina i sindacati non fanno rumore. E il dissenso, quando c’è, resta silenzioso. Come le fabbriche automatiche.
Pechino finanzia la sua corsa con 137 miliardi di dollari per robotica, AI e tecnologie avanzate. Le università sfornano 350.000 ingegneri meccanici l’anno (contro i 45.000 americani), le banche statali prestano trilioni all’industria, e persino le maratone diventano showroom: 12.000 runner e 20 robot umanoidi alla mezza maratona di Pechino. Sei robot al traguardo.
Il messaggio di Pechino è inequivocabile: mentre l’Occidente discute se l’AI sia pericolosa, la Cina l’ha già messa alla catena di montaggio. Al buio.
