Oggi il Corriere della Sera dedica loro una intera pagina perchè sono una sorta di fenomeno sociale che non va sottovalutato e sul quale ci sono stereotipi che vanno abbattuti. Si tratta dei maranza.
Ma chi sono davvero i maranza? Secondo la definizione della Treccani, si tratta di giovani appartenenti a gruppi di strada chiassosi e provocatori, spesso sguaiati, vestiti in modo appariscente e con atteggiamenti minacciosi. Una figura ormai familiare nelle città del Nord Italia, tra borselli portati all’altezza della gola, piumini smanicati taroccati, crocifissi vistosi – anch’essi falsi – e una presenzacostante sui social TikTok e Instagram. Facebook per loro è da “vecchi”.
C’è però un errore diffuso: identificare il “maranza” esclusivamente con l’adolescente straniero. Marocchino, tunisino, egiziano. Nulla di più fuorviante. La realtà, confermata da adolescenti, forze dell’ordine e osservatori sociali, è ben diversa. Il maranza non ha nazionalità. È una sottocultura trasversale, geografica e sociale, che accomuna ragazzi italiani e non, uniti non da un’origine, ma da uno stile di comportamento e appartenenza.
La forza del maranza sta nel branco: è nella comitiva che si sente protetto, libero di agire in modo prepotente, spesso al limite (o oltre) della legalità. Da solo, forse, non lo farebbe. Ma con il gruppo alle spalle, ogni eccesso è lecito.
E quando i genitori vengono chiamati per discutere delle azioni dei figli? Le testimonianze raccolte attraverso le forze dell’ordine del Nord Italia, raccontano un copione noto: la colpa è sempre di qualcun altro. Mai del figlio. Mai dell’educazione. È stato provocato. Era bullizzato. Gli insegnanti non lo capiscono. La colpa è della scuola, della pandemia, dei social, perfino del clima.
Così si alimenta il fenomeno, mentre si ignorano le sue radici reali: l’insicurezza, il bisogno di appartenenza, l’assenza di limiti educativi, il desiderio di esistere a tutti i costi. I maranza sono lo specchio di una generazione lasciata troppo spesso senza guida, e non hanno passaporto. Hanno solo una lingua: quella del disagio.
