di Alessandra Magliaro

In Europa da inizio anno, è in vigore l’obbligo della raccolta differenziata dei tessili; un obbligo che l’Italia come anche altri paesi ha anticipato al 2022. E sono previste multe salate, fino a 2500 euro, per chi getta i rifiuti tessili nell’indifferenziato.
Quella sui rifiuti tessili è una sfida ecologica fondamentale che l’industria della moda per prima ma anche tutti noi consumatori dobbiamo affrontare con grande responsabilità e senso civico. Una corretta gestione dei capi è una partita da giocare con una consapevolezza che anni fa probabilmente non avevamo.
La gestione dei rifiuti tessili è fondamentale perché si comprano sempre più capi di abbigliamento ma il tempo medio di utilizzo degli stessi si è ridotto. C’è un tema di fast fashion, ossia di moda a prezzi low cost e di breve durata, c’è un tema di gestione dei magazzini e di produzione di moda in generale e c’è un tema che riguarda i singoli cittadini sulla dismissione dei capi tessili: per ciascuno di questi casi c’è, oltre a tutto, anche un problema  ambientale di smaltimento e riciclo.
Tutti noi ci siamo trovati davanti alla domanda al cambio di guardaroba: come mi disfo di questo o quel capo? E per le industrie tutto questo è moltiplicato.

Nel nostro Paese, secondo il Rapporto 2024 Rifiuti Urbani di ISPRA. nel 2023 sono stati raccolti in modo differenziato 171,6 mila tonnellate di tessili, in crescita del 7% rispetto alle 160,3 mila tonnellate dell’anno precedente, arrivando così a 2,9 kg per abitante.
L’aumento dell’attenzione all’ambiente da parte del comparto tessile, dalla produzione alla gestione dei rifiuti, è al centro anche dei lavori in sede europea, dove l’obiettivo è incrementare riutilizzo, raccolta, recupero e uso di fibre riciclate.

I rifiuti tessili sono un problema enorme

Durante la decomposizione, i capi rilasciano sostanze tossiche e microplastiche, poiché la maggior parte degli indumenti, specialmente quelli prodotti dal fast fashion, è realizzata con materiali sintetici come il poliestere. Quando vengono bruciati, spesso nei Paesi dove sono spediti come rifiuti, rilasciano gas inquinanti e climalteranti.
Come fare?  Innanzitutto per ridurre il proprio impatto, è fondamentale utilizzare il più possibile ciò che già si possiede, scambiare con altre persone (i famosi swap party basati sul baratto e dunque sulla second chance) o donare i vecchi capi in buone condizioni a persone che si conoscono e ne hanno bisogno o a case famiglia, comunità per minori ecc .così da essere certo che vengano utilizzati da chi ne ha bisogno. E poi acquistare solo quando necessario, privilegiando l’usato.
I capi proprio rotti poi possono essere trasformati in stracci per la polvere, stracci per il pavimento, spugne per lavarsi . Possono essere usati per toppe, per rinforzare abiti da lavoro
Con qualche abilità in più si possono staccare e recuperare bottoni e cerniere per un prossimo utilizzo.
Possono essere accorciati o modificati, rammendati fino allo sfinimento.
Quando sono a brandelli si possono usare per imbottiture, dai cuscini alla cuccia del cane.
Insomma non è che vanno buttati al primo buco. Si possono conferire nei centri eco urbani dove c’è un reparto tessili (ma poi chissà che fine fanno?)

Buttare i vestiti nei bidoni gialli è una buona idea?

La risposta non è semplice ma prima devi sapere alcune cose, come mostra Greta Volpi, una content creator green nota su Ig come greenonthebeam in un video  su cosa accade in Italia, quali difficoltà ci sono e come provare a risolverle.
La beneficenza non c’entra nulla, non vengono dati gratuitamente ai più bisognosi come spesso si pensa.  Anche se in alcuni cassonetti c’è il logo della Caritas (o di altre onlus) non c’è un coinvolgimento diretto nella gestione affidata appunto ad altri enti, solo una piccola percentuale di ricavi. Invece vengono recuperati dagli enti che gestiscono questi bidoni, selezionati, sanificati, rivenduti o smaltiti. possono finire anche all’estero in Africa, America Latina e Asia dove purtroppo molto spesso non vengono smaltiti correttamente anzi. Avete presente quegli slum discarica? Ecco è lì che finiscono i rifiuti tessili.

Gli abiti troppo rotti o inutilizzabili non andrebbero gettati in quei contenitori gialli ma spesso questa cosa non si sa e anzi finiamo per metterli lì dentro proprio come ultima spiaggia.

Purtroppo, mancano trasparenza e informazioni chiare e pratiche: tutto risulta confuso e i cittadini spesso non sanno come comportarsi. Inoltre, sebbene si parli molto di riciclo, riciclare i vestiti non è così semplice come si pensa. Molti capi sono composti da materiali misti (es. mix cotone e poliestere) che rendono difficile la separazione e il trattamento.

Per affrontare questo problema, è necessario ridurre i consumi, migliorare (davvero) il sistema di raccolta e riciclo e sensibilizzare le persone su pratiche più sostenibili.
Con la nuova normativa in vigore dovrebbero installare appositi bidoni per lo smaltimento tessile, peccato che al momento non se ne veda l’ombra.

Alcuni marchi di fast fashion come H&M, Zara, Mango hanno appositi recipienti dove conferire l’usato, resta poi da capire anche loro se li riutilizzano o invece piuttosto finiscono in discarica e tutta questa non è altro che una operazione di greenwashing.

H&M è stata la prima azienda di moda a lanciare, nel febbraio 2013, un progetto di garming collect ossia di raccolta globale di abiti usati in tutti i mercati in cui è presente, Italia inclusa: ogni cliente può portare nei nostri negozi qualsiasi capo usato, dai vecchi calzini alla biancheria da letto sbiadita, di qualunque marchio e in qualunque condizione, e contribuire al successivo riutilizzo e riciclo. I capi raccolti,  (un’operazione gestita da un partner esterno, dal 2023 Remondis) possono essere convertiti utilizzando tre sistemi: ossia venduti come articoli di seconda mano, riutilizzati o trasformati (ad esempio panni per le pulizie o imbottitura per sedili delle auto o pareti di insonorizzazione) o riciclati in nuove fibre tessili o sarà usato per altri fini, ad esempio come materiale isolante o di smorzamento per l’industria automobilistica.

Ansa

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