di Federico Piazza

La produzione industriale in Italia e in Europa è in contrazione a causa del rallentamento generale della domanda di beni. E non sembrano esserci prospettive di recupero nel breve termine. I primi settori a risentirne sono quelli dei metalli, che segnalano in anticipo la tendenza del ciclo economico perché lavorano con tutti i comparti di meccanica, elettromeccanica, veicoli e costruzioni. A partire dalle fonderie di ghisa, che infatti stanno attraversando un 2024 molto difficile, reso ancora più critico in Italia dai costi energetici più alti d’Europa.
Da inizio anno i volumi delle vendite delle fonderie italiane sono diminuiti del 20-25% rispetto allo stesso periodo del 2023, e il calo di produzione e ordini si è accentuato dopo l’estate. Tant’è che nel settore è aumentata la cassa integrazione. Anche alla Vdp di Schio.
Spiega la situazione Franco Vicentini, presidente e amministratore delegato del Gruppo Vdp (circa 400 dipendenti) e vice presidente dell’associazione imprenditoriale di categoria Assofond.

Come sta andando l’attività quest’autunno?
«La situazione a Schio è allineata con quella delle altre due fonderie di ghisa che abbiamo in provincia di Padova. Quest’anno sinora il lavoro si è ridotto del 20%, ma dopo l’estate il calo è arrivato al 30%. Probabilmente chiuderemo il 2024 con 40mila tonnellate complessive di produzione annua, rispetto alle 46mila del 2023 e alle 50mila del 2022 e 2021. Tutti i settori generalisti della meccanica che serviamo da Schio sono rallentati in Europa, e non va meglio il mercato delle macchine agricole e movimento terra per cui lavora lo stabilimento padovano. Solo la domanda statunitense è ancora abbastanza vivace».

Perché c’è poca richiesta di ghisa in Europa?
«Secondo me la causa è stata la combinazione della corsa all’incremento dei prezzi negli ultimi anni e degli allungamenti dei tempi di consegna. Questo ha portato i clienti a fare molto magazzino e quindi oggi ci sono ancora stoccaggi alti di merce, che i clienti vogliono ridurre prima di fare nuovi ordini. Lo vediamo per tanti prodotti destinati alla meccanica, per esempio nel comparto elettropompe. Per quanto riguarda invece il mercato della trattoristica, in Europa sono diminuite le agevolazioni per l’acquisto di macchinari agricoli e quindi la contrazione delle vendite si riflette sulla filiera dei componentisti. Sono comunque fiducioso che a livello generale si vedrà una ripresa nella seconda metà del 2025. Nel frattempo purtroppo regna l’incertezza tra gli operatori economici, anche perché lo scenario geopolitico con le guerre in corso non migliora».

Come state affrontando la situazione?
«Abbiamo dovuto aumentare la cassa integrazione. Avevamo iniziato con qualche ora ad aprile, adesso siamo sull’ordine di una settimana al mese. A seconda dello stabilimento, settimana corta fino a giovedì oppure fermo per sette giorni. Perché, visto pure il costo dell’energia, è meglio spegnere e riaccendere gli impianti che tenerli operativi a basso regime. In compenso stiamo utilizzando i tempi morti per accelerare i lavori di ammodernamento ed efficientamento energetico. A Schio stiamo investendo su nuovi forni fusori, a Padova invece sono in corso interventi strutturali su linee gas e di scarico».

Gli investimenti quindi proseguono?
«Necessariamente. Non possiamo fermarci a causa della crisi. Del resto, siccome non abbiamo debiti, possiamo permetterci di fare investimenti ogni anno».

Ha citato il problema dell’energia, che è sentitissimo nel settore fonderie. Ci può dare un numero?
«Basti pensare che il PUN – Prezzo Unico Nazionale dell’elettricità in Italia è mediamente oggi intorno ai 110 euro al MWh. Cioè oltre il 50% più caro che in Germania, e oltre il doppio che in Francia, tanto per fare un confronto con i due principali Paesi dell’area Ue. Questo è un forte svantaggio competitivo per tutta l’industria italiana, e ovviamente ancora di più per le aziende energivore come le fonderie. Occorre trovare una soluzione in tempi brevi».

Ma le rinnovabili che si stanno diffondendo non aiutano ad abbassare i costi dell’elettricità?
«Gli investimenti in autoproduzione sono incentivati anche con la misura dell’Energy Release che assicura uno sconto anticipato in bolletta per tre anni su circa un terzo dei consumi acquistati in rete dalle aziende energivore. Ma una fonderia come la nostra di Schio, che ha un fabbisogno elettrico di 40 milioni di KWh, non può certo basarsi solo su un impianto fotovoltaico. Perché dovrebbe essere gigantesco e servono spazi. E in ogni caso produce in maniera intermittente mentre i sistemi di accumulo sono ancora poco efficienti e troppo costosi in ambito industriale. A livello nazionale è bene investire sulle rinnovabili, magari potenziando l’eolico offshore che genera energia in maniera più continuativa. Ma occorre anche riformare il meccanismo europeo del cosiddetto prezzo marginale dell’elettricità che viene oggi fissato in borsa sulla base del costo monitorato ora per ora delle centrali meno efficienti, che in genere sono quelle vecchie termiche a turbogas. Bisognerebbe almeno suddividere i prezzi tra fonti rinnovabili e non».

Ma se funziona così dappertutto in Europa, perché in Italia il PUN è molto più alto che in altri Paesi?
«Perché in Italia c’è poca concorrenza tra produttori. Il grosso della generazione è in mano a pochissimi grandi operatori, che si mettono d’accordo per tenere su il prezzo usando appositamente centrali poco efficienti. Funziona così da trent’anni».

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