All’età di 98 anni è morto il Presidente emerito Giorgio Napolitano. Se n’è andato il ‘comunista preferito’ di Henry Kissinger, il ‘Re Giorgio’ del New York Times, l’undicesimo presidente della Repubblica italiana con il primato del secondo mandato. Aveva compiuto 98 anni il 29 giugno scorso festeggiati con i 70 anni di vita passati nelle istituzioni della Repubblica.
Era entrato alla Camera per la prima volta nel 1953, è morto senatore a vita, come tutti i presidenti emeriti. La sua biografia è tutta e solo incentrata nel servire lo Stato e le istituzioni, a partire dalla scelta dell’Università: Giurisprudenza alla prestigiosa Federico II di Napoli, dove si laurea nel 1947 a soli 22 anni. Era già comunista da due anni, dopo essere passato, come molti universitari di quell’epoca, dal Guf (gruppo universitario fascista). Il liceo classico, fra Napoli e Padova, gli aveva invece regalato l’interesse per la cultura, soprattutto per il teatro. Erano gli anni giovanili nella sua Napoli, vissuti in una famiglia nobile e colta, con il padre Giovanni, avvocato liberale, intellettuale e poeta, e la madre Carolina Bobbio discendente dall’aristocrazia piemontese trapiantata poi nel capoluogo partenopeo.
L’approdo al Quirinale è solo il suo ultimo e più prestigioso scranno istituzionale, dopo dieci legislature, due anni da presidente della Camera, dal ’92 al ’94, due da ministro dell’Interno dal ’96 al ’98 con il governo Prodi e quasi dieci anni – a partire dal 1989 – da europarlamentare, dove ha presieduto la strategica commissione Affari costituzionali. Tutto questo da ex comunista e non a caso lo ha potuto fare lui. Il Pci lo candida nel 1953 e nel 1956 è già membro del Comitato centrale, proprio l’anno della repressione sovietica dei moti di Ungheria, condannati senza appello dal partito. Napolitano si allinea motivando la sua posizione in nome del pericolo di un acuirsi della guerra fredda e di una conseguente instabilità in Europa. Ma negli anni seguenti rivide quella posizione attaversando il ‘grave tormento autocritico’ che lo condusse poi ad abbracciare fin dai primi anni 60 la corrente migliorista di Giorgio Amendola con cui mette a fuoco le sue ‘personali, profonde e dichiarate revisioni’ che lo porteranno a guardare più alla socialdemocrazia europea che al vecchio Pci.
Perché, come disse suggellando le sue scelte riformiste in anni in cui non era facile per un dirigente del Pci, ‘la mia storia non è rimasta uguale al punto di partenza’. Tanto da agevolarne il destino da uomo delle istituzioni, pur avendo dato molto al partito, come responsabile cultura dal 1966, poi della politica economica dal ’76 al ’79 e dal 1986 si attesta sulla politica estera, facendo valere la sua ‘piena e leale’ solidarietà agli Usa e alla Nato. Incarichi di prestigio ma i rapporti con i ‘compagni’ furono anche tempestosi quando il Pci resisteva nelle sue posizioni massimaliste. Napolitano apprezzò e sostenne il Berlinguer della ‘solidarietà nazionale’, quello delle aperture alla Dc, ma lo contestò duramente nella fase successiva di acceso conflitto con il Psi. Invece proprio alla ‘sinistra larga’ guardava Napolitano, una sinistra di governo con i socialisti. Così divenne una garanzia per le altre forze politiche che ne agevolarono il passaggio agli incarichi istituzionali, prima da presidente della Camera e poi da Capo dello Stato, contro il suo stesso partito che nel 2006 aveva candidato al Colle Massimo D’Alema.
Il Napolitano delle istituzioni perde ogni connotato del militante, sposa la Costituzione, l’Europa, l’atlantismo, diventa il ‘my favourite comunist’ di Kissinger che gli consegna il suo ‘Premio’ a Berlino nel 2015 ‘in riconoscimento degli straordinari contributi al consolidamento dell’integrazione e della stabilità europea’.
Il contesto politico che deve affrontare il ‘re Giorgio’ asceso alle più alte cariche istituzionali agevola e consolida la sua postura da uomo di Stato: i due anni della presidenza della Camera furono quelli dell’esplodere di Tangentopoli e dei partiti, che erano stati la cornice esistenziale oltre che politica, del suo campo di azione. La prima Repubblica da allora viene stravolta e distrutta. Napolitano arriva al Colle in questo clima e con lui prestano giuramento cinque presidenti del Consiglio del calibro di Berlusconi, Monti, Prodi, Letta e Renzi, in anni difficili in cui il Capo dello Stato interpreta il suo ruolo come argine all’antipolitica, con alcune costanti bussole: essere il presidente di tutti gli italiani, garantire la governabilità, agevolare il processo delle riforme. Arbitro ma anche giocatore, passaggi contestati a destra, per non aver preso posizione a favore del Cavaliere di Arcore e a sinistra per averlo tutelato troppo, come con lo ‘scandalo’ del lodo Alfano, che disponeva la sospensione dei processi penali nei confronti del presidente della Repubblica, dei presidenti delle Camere e del presidente del Consiglio, lodo che nel 2008 ottenne la firma del Quirinale, cui seguì poi la bocciatura della Corte costituzionale.
L’operazione Monti, con cui Napolitano blindò la legislatura divenne per i forzisti il ‘grande complotto’, il golpe con la Merkel per cacciare Berlusconi, e minacciarono la messa in stato d’accusa. Presentata poi nel gennaio 2014 da Grillo e le sue stelle che imputavano al Quirinale ‘l’espropriazione della funzione legislativa del Parlamento’. Non se ne fece nulla, un mese dopo la richiesta fu archiviata.
Per Marco Travaglio che, insieme ai grillini fu suo acerrimo accusatore, Napolitano era ‘antropologicamente contrario alle elezioni’ per un suo disegno personale di agevolare ‘le larghe intese nell’interesse delle grandi autorità europee’ di cui era garante. Di contro, il prestigio internazionale nei suoi confronti cresceva sempre, con Obama fra i più convinti estimatori. Il politologo Carlo Galli gli attribuì l’inizio del ‘presidenzialismo dell’autorevolezza’.
Seguendo le sue bussole, riforme e governabilità, in nome della realpolitik di cui entrambi erano fortemente dotati, Napolitano, pur essendone anche antropologicamente agli antipodi, agevolò l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi sollecitandogli quelle riforme che poi costarono al fiorentino l’uscita di scena da Palazzo Chigi.
Un altro momento critico della presidenza Napolitano fu l’aspro conflitto che lo portò nel 2012 a sollevare dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro la Procura di Palermo per l’intercettazione telefonica all’ex ministro dell’Interno Mancino in conversazioni con il Presidente della Repubblica, nell’ambito del processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia: fu un momento di grande amarezza, che scatenò politici e opinione pubblica.
Ma alla fine del settennato quando si trattò di individuare il successore per il Quirinale, la classe politica, compresa quella che non lo aveva amato, avvitandosi nell’impossibilità di scegliere, fu costretta a chiedergli di restare inaugurando la prassi del secondo mandato. Fu l’occasione per misurare l’autentica statura di uomo di Stato di Napolitano che, nel memorabile discorso per il secondo mandato del 20 aprile 2013, li ‘maltrattò’ stigmatizzandone l’ inconcludenza, sottolineandone ‘i guasti, le omissioni, le irresponsabilità’. Ma si commosse anche il presidente, rivelando la sua natura più profonda: ‘Ho ritenuto di non poter declinare’ l’appello a restare, ‘mosso da un senso antico e radicato di identificazionie con le sorti del Paese’, disse con la voce rotta e le lacrime agli occhi. In un’atmosfera surreale in cui lui attaccava e i ‘colpiti’ applaudivano sempre più forte. ‘Questo richiamo non induca ad alcuna autoindulgenza, non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme’… e giù applausi, come flagellanti che invece di frustarsi agitavano le mani.
L’uscita di scena di Napolitano è stata in punta di piedi. Come annunciato già nel discorso di fine anno del 2014, lascia il 14 gennaio 2015, aprendo la strada alla stagione di Mattarella che, sette anni dopo, dovrà replicare il bis.
Napolitano ha lasciato in silenzio la scena politica e anche la vita, con le forze dell’ordine a presidiare la sua riservatezza di sempre davanti alla clinica dove ha vissuto gli utlimi giorni. L’uomo non si è mai rivelato, coperto dal politico, dalla guida istituzionale che è sempre sembrata la sua unica identità. E’ stato il presidente del Senato Ignazio La Russa ricordandolo in Aula il giorno del suo ultimo compleanno, a tratteggiarne anche il migliore epitaffio: Giorgio Napolitano ha rappresentato ‘il testimone di una cultura che si fa politica e di una cultura politica che si fa istituzione’.