“In Italia, quando apro gli occhi la mattina, non mi sento affatto al sicuro. Penso a tutte le persone che sono tutt’oggi nei centri di detenzione, subendo minacce e torture. Sono rimasto in contatto con centinaia di loro: il movimento di Tripoli non è finito”. L’agenzia Dire incontra David Yambio . Si tratta di un rifugiato sudsudanese di 26 anni e all’agenzia Dire racconta la sua nuova vita in Italia, dopo anni trascorsi in Libia, da dove è fuggito dopo aver animato un sit-in di cento giorni a Tripoli per denunciare le condizioni di vita dei migranti. “La mia priorità naturalmente è studiare- chiarisce l’attivista- per recuperare gli anni persi. Ma intendo dedicare la mia vita a battermi per i diritti dei più deboli”.
GLI SGOMBERI E LA PROTESTA DEI MIGRANTI A TRIPOLI
Yambio è parte di quei migranti sfuggiti agli sgomberi e agli arresti di massa da parte della polizia libica nel quartiere di Gargaresh, densamente popolata da stranieri, nell’ottobre scorso. Alla fine oltre 5mila persone vennero rinchiuse nei centri di detenzione e un civile perse la vita. Un’azione condannata da più parti, tra cui le Nazioni Unite che parlarono di “crimini contro l’umanità”. “Capii che era il momento di dare voce a quelle persone. Decidemmo di accamparci davanti la sede dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) perché era l’unica istituzione che ci sentivamo di riconoscere. L’Unhcr ci rilasciava documenti temporanei, mentre il governo tripolino ci mandava contro la polizia ed è al potere illegalmente. Non si tratta poi dell’unico esecutivo del Paese”. Ma la reazione dei funzionari Onu fu di chiusura: “Ci hanno lasciato fuori e non hanno lasciato entrare per discutere nessuno di noi”. In quei giorni però dalla sede Onu spiegarono di essere stati costretti a tenere questa condotta poiché preoccupati della presenza di “infiltrati violenti” nel presidio. “Non era vero” sostiene Yambio. “Ci è stato ripetuto che Unhcr si occupa delle persone vulnerabili, ma i migranti – uomini, donne, bambini, anziani, malati – non hanno nessun diritto in Libia e per questo sono tutti persone vulnerabili”.
Per il suo attivismo, il ragazzo ha subito minacce di morte. Un epilogo simile a quanto avvenuto sei anni prima in Sud Sudan, quando Yambio organizzava coi compagni delle superiori marce di protesta per denunciare l’arruolamento di bambini-soldato da parte dell’esercito regolare e delle forze ribelli nella guerra civile, scoppiata a fine 2013. “Poi a 19 anni dovetti scappare perché le violenze raggiunsero la mia città. Fuggimo tutti di corsa e la mia famiglia fu smembrata, per anni ho perso i contatti con i miei genitori e i miei fratelli. Ora vivono in tre Paesi diversi: l’Uganda, la Repubblica democratica del Congo e il Centrafrica”. Quanto a David, andò in Ciad ma dopo tre anni e mezzo, le ingiustizie che subiva nella miniera informale in cui lavorava nel nord lo convinsero ad andare in Libia, dove però fu sequestrato dalle milizie. “Venni picchiato, ricattato e minacciato di morte”.
La critica a Italia e Europa: “Non ci vogliono”
Queste esperienze alimentarono la sua sete di giustizia quando decise di salire a bordo di un gommone per venire in Europa, in assenza di vie legali per lasciare la Libia. “Il sit-in di Tripoli è stato sgomberato con violenza ma continuiamo a sentirci e chi può parla per gli altri. Io non mi arrendo a chi sostiene che non abbiamo diritto di vivere, a chi ci bolla come clandestini e criminali“. Ma se dallo Stato italiano Yambio dice di non sentirsi accettato, cosa diversa è la società civile e i volontari di Mediterranea: “Eravamo in contatto con loro durante il sit-in di Tripoli, ci hanno sostenuto e dato coraggio. Sono stati gli unici a ricordarci che siamo esseri umani e in quanto tali abbiamo il diritto di vivere. Ci hanno dato speranza. Ma l’Europa no, chiude le frontiere ai non europei in fuga dalle guerre”.
Oggi Yambio interviene al panel ‘Che razza di accordi: la Libia e la coscienza dell’Europa’, che si tiene nell’ambito di ‘A Bordo!’.