La Rivista “The Lancet” ha pubblicato lo studio titolato “Misurare la disponibilità di risorse umane per la salute e il suo rapporto con la copertura sanitaria universale per 204 paesi e territori dal 1990 al 2019: un’analisi sistematica per il Global Burden of Disease Study 2019”, elaborato da un gruppo di lavoro internazionale “GBD 2019 Risorse umane per i collaboratori sanitari “.
Nello studio si è stimato che, nel 2019, il mondo avesse 104,0 milioni (intervallo di incertezza del 95% 83,5–128,0) operatori sanitari, inclusi 12,8 milioni (9,7–16,6) medici, 29,8 milioni (23·3–37·7) infermieri e ostetriche, 4·6 milioni (3·6–6·0) personale odontoiatrico e 5·2 milioni (4·0–6·7) personale farmaceutico.
È stata calcolata una densità globale di medici di 16·7 (12·6–21·6) per 10.000 abitanti e una densità di infermieri e ostetriche di 38·6 (30·1–48·8) per 10.000 abitanti.
Per raggiungere 80 su 100 nell’indice di copertura effettiva UHC, lo studio ha stimato che, per 10.000 abitanti, almeno 20,7 medici, 70,6 infermieri e ostetriche, 8,2 personale odontoiatrico e 9,4 personale farmaceutico sarebbero necessari, ovvero 3,4 infermieri e ostetriche per 1 medico. Da quanto sopra ne deriverebbe che è necessaria una notevole espansione della forza lavoro sanitaria mondiale per raggiungere livelli elevati di copertura efficace dell’UHC.
Le maggiori carenze riguardano i contesti a basso reddito, evidenziando la necessità di maggiori finanziamenti e coordinamento per formare, impiegare e trattenere le risorse umane nel settore sanitario.
La carenza effettiva di risorse umane potrebbe essere maggiore di quanto stimato perché le soglie minime per ciascun quadro di operatori sanitari sono confrontate con i sistemi sanitari che traducono in modo più efficiente le risorse umane nel raggiungimento dell’UHC.
C’è un ritorno alle assunzioni in sanità?
Luciano Fassari nell’articolo “Personale SSN. Con la pandemia tornano a crescere le assunzioni: +15 mila in un anno. Boom del tempo determinato: +60%”, apparso su “Quotidiano sanità”, riporta i dati emersi dal conto annuale del MEF. Gli assunti a tempo indeterminato nel Servizio Sanitario Nazionale hanno toccato nel 2020 quota 664.686 rispetto ai 649.523 del 2019. Ma quasi tutto l’aumento è dovuto agli infermieri e al personale non dirigente mentre il numero dei medici è rimasto inalterato.
Boom del tempo determinato dove nel 2021 se ne stimano oltre 50 mila unità rispetto alle 32 mila del 2019.
Entrando nello specifico si nota come la maggior parte dell’aumento è dovuto all’ingresso nel SSN di più infermieri e personale non dirigente: erano 518.533 nel 2019 e sono diventati 532.576 nel 2020. Anche in questo caso numeri lontani dal 2011 quando le unità infermieristiche erano 545.704.
Stabili invece i medici: erano 112.146 nel 2019 e sono diventati 112.147 nel 2020. E anche in questo caso i numeri sono ancora distanti da quelli del 2011 dove i medici del SSN erano 115.449.
La pandemia ha portato anche a nuove assunzioni a tempo determinato dove si registra un aumento del personale di circa il 19% dal 2019 al 2020 e di circa il 30% dal 2020 al 2021.
Nel 2021 le stime parlano di oltre 50 mila assunti contro i 32 mila che ce n’erano nel 2019, circa il 60% in più.
In crescita anche i contratti co.co.co che dai dai 3.964 del 2019 sono saliti nel 2020 a quota. 9.795.
Nuovi contratti ma che per ora non abbassano l’età media del personale del SSN che risulta in crescita: nel 2020 si è attestata a quota 49,8 anni contro i 43,5 anni del 2011.
Le previsioni e le proposte ANAO ASSSOMED
Nell’articolo apparso sempre su “Quotidiano sanità” titolato “ANAAO: Tra pensionamenti e licenziamenti previsti 40mila medici in meno entro il 2024”. Quarantamila medici in meno nel SSN entro due anni: questa la previsione dell’ANAAO ASSOMED che ha analizzato i principali fattori che determineranno la carenza di medici specialisti.
Secondo il sindacato essi riconducibili ad almeno 3 fenomeni:
1. Pensionamenti – Nel triennio 2019-2021 sono andati in pensione circa 4.000 medici specialisti ogni anno per un totale di 12.000 camici bianchi. Nel triennio 2022-2024 andranno in pensione circa 10.000 medici specialisti. Quindi in 6 anni IL SSN perderebbe 22.000 medici specialisti ospedalieri per pensionamenti.
2. Licenziamenti – A impoverire le corsie si aggiunge il fenomeno della fuga dagli ospedali. Dal recente studio ANAAO risulta che dal 2019 al 2021 hanno abbandonato l’ospedale circa 000 camici bianchiper dimissioni volontarie. Se il trend dei licenziamenti fosse confermato anche nel triennio successivo, si licenzierebbero ulteriori 9000 medici dal 2022-2024. Tra pensionamenti e licenziamenti si arriverebbe a una perdita complessiva di 40.000 medici specialisti entro il 2024.
3. Nuove attività che richiedono una implementazione delle dotazioni organiche con medici specialisti
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- La pandemia ha reso indispensabile il potenziamento delle terapie intensive e sub-intensive non solo dal punto di vista del numero dei posti letto da incrementare ma anche del personale che deve essere specificamente formato a questa attività.
- ll Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) prevede diversi interventi tra i quali la realizzazione degli ospedali di Comunità con circa 11mila posti letto entro il 2026.
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Dove reperire il personale?
Sempre secondo l’ANAAO ASSOMED gli specializzandi potrebbero essere l’ancora di salvezza per il SSN. Gli specializzandi che hanno ottenuto il contratto di formazione specialistica nel 2020 e nel 2021 (le borse sono state rispettivamente 14.000 e 18.000), potranno essere utilizzati negli ospedali solo tra 4/5 anni. Nell’immediato per il sindacato sarebbe necessario: stabilizzare tutto il precariato formato durante la pandemia (9.409 unità) e contrattualizzare, per quanto necessario e possibile, quella platea di 15mila specializzandi degli ultimi anni di specializzazione che già da subito potrebbero essere impiegati per dare aiuto nelle attività ospedaliere.
Intento assistiamo alla “grande fuga” dagli ospedali e non solo …
Lo studio ANAAO ASSOMED, coordinato da Carlo Palermo, Chiara Rivetti, Pierino Di Silverio, Costantino Troise è stato pubblicato in sintesi sempre su “Quotidiano sanità” con il titolo “La grande fuga dagli ospedali del SSN. Negli ultimi tre anni 21mila medici li hanno abbandonati”.
I dati del Conto Annuale del Tesoro (CAT) evidenziano che dal 2017 in tutta Italia si assiste ad una sua vera e propria esplosione con un trend in progressivo aumento. I dati del 2020 e del 2021, tratti dal database ONAOSI, confermano il persistere di una quota importante di licenziamenti (da 2000 a 3000) che si aggiungono alle uscite per pensionamento (tabella 1).
Il tutto, con la aggiunta dell’enorme carico emotivo legato all’alto numero di contagi e alle morti per Covid tra gli stessi operatori sanitari, in un contesto che già lamentava pesanti carenze di organico (- 46 mila addetti tra il 2009 e il 2019). E dunque, nel 2021, riprende la grande fuga, come si evince dal grafico 12.886 medici ospedalieri, il 39% in più rispetto al 2020 ha deciso di lasciare la dipendenza dal SSN e proseguire la propria attività professionale altrove (dati derivati dal database ONAOSI sulla cessazione della contribuzione obbligatoria).
Nel 2021 la media nazionale dei medici dipendenti che hanno deciso di licenziarsi è stata del 2,9%, percentuale abbondantemente superata dalla Calabria, 3.8%, e dalla Sicilia, 5.18%. La Lombardia, che era già oltre la media italiana nel 2020, aumenta ancora i suoi dimessi del 43%. La Liguria in un anno triplica i medici che si dimettono, la Puglia passa dal 2.04% al 3.29 %.
Del resto, le remunerazioni, anche a causa del blocco contrattuale ultradecennale, oramai sono ridotte a circa il 50% di quelle che offrono i paesi dell’ovest europeo, che entreranno in diretta competizione con l’Italia nella ricerca di personale sanitario nei prossimi anni, potendo godere di una situazione di evidente vantaggio per la maggiore valorizzazione delle capacità professionali oltre che per gli alti salari.
Il crollo delle lauree sia in Medicina che in Scienze Infermieristiche
Per altro Angelo Mastrillo, nell’articolo apparso su “Quotidiano sanità” titolato “Infermieri. Scendono i laureati: il 25% dei posti a bando resta vuoto” afferma che è la prima volta negli ultimi 11 anni che il numero dei laureati in Infermieristica scende sotto 10 mila.
Per gli Infermieri, rispetto alla media annuale sugli ultimi 11 anni, i laureati sono 11.436 sui 15.464 posti messi a bando, pari al 74%. Valore questo che è sceso dall’81% del 2013 al 69% del 2020 e al 67% del 2021. La probabile causa potrebbe essere la difficoltà negli ultimi 2 anni di garantire il tirocinio per gli studenti e concludere quindi in tempo il percorso formativo.
Inoltre, rispetto ai laureati in Medicina il rapporto è sotto 1 a 1, mentre era 2 a 1, il doppio nel 2013. Se da una parte si giustifica l’aumento dei Medici per bilanciare il basso numero di laureati negli anni precedenti, a preoccupare è il calo progressivo degli Infermieri.
La formazione del capitale umano, l’Italia agli ultimi posti in UE.
Assistiamo ad una concausa che limita la possibilità di sviluppare il personale per il SSN e per la sanità italiana nel numero e nelle qualifiche necessarie. Alessandra Ferrara, Cristina Freguja, Lidia Gargiulo (ISTAT) nel loro report presentato alla X° Conferenza Nazionale di Statistica titolato “La difficile condizione dei giovani in Italia: formazione del capitale umano e transizione alla vita adulta” fanno una analisi circostanziata del mercato del lavoro e dei processi formativi in Italia in rapporto agli altri Paesi UE.
Il sistema di formazione del capitale umano determina forti differenziali negli indicatori di risultato (conseguimento titoli, qualità delle competenze…). Assistiamo ad un mercato del lavoro che vede disoccupati quasi il 30% dei giovani, 1 su 5 nella condizione di Neet (non lavora e non studia), e che li impiega in larga parte con contratti atipici (i più “volatili” in termini di impiego stabile) e in condizione di sottooccupazione.
Le difficoltà che emergono nel completare i percorsi di studio fanno sì che l’Italia si distingua negativamente nel contesto europeo per la quota di early school leavers, cioè i giovani di 18- 24 anni che hanno abbandonato gli studi senza aver conseguito un diploma di scuola superiore. Sono il 19,2 per cento nel 2009, oltre quattro punti percentuali in più della media europea e nove punti al di sopra dell’obiettivo del 10 fissato dalla Strategia di Lisbona e riproposto da Europa 2020 (Figura 1)
Figura 1 – Giovani che abbandonano prematuramente gli studi nei paesi Ue – Anno 2009 (valori percentuali)
Nel 2009, in termini di stock, 19 dei giovani 30-34enni ha conseguito un titolo di studio universitario, con un incremento, tra il 2004 e il 2009, di 3 punti percentuali. Il livello di istruzione dei 30-34enni è tra gli indicatori individuati dalla Commissione Europea nella strategia Europa 2020. Il target fissato, da raggiungere entro il prossimo decennio, è pari al 40 per cento della popolazione nella classe di riferimento: mentre la metà dei paesi dell’Unione ha già raggiunto l’obiettivo, l’Italia (con un valore dell’indicatore di 13 punti inferiore alla media Ue27) si colloca alla quarta peggiore posizione nella graduatoria dell’Unione (Figura 2)
Figura 2 – Popolazione in età 30-34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario nei paesi Ue – Anno 2009 (valori percentuali)
Nel 2009, il 21,2 per cento della popolazione tra i 15 e i 29 anni, poco più di due milioni di giovani, risulta del tutto fuori dal circuito formazione-lavoro (Not in education, employment or training, Neet). L’Italia risulta il paese in cui il fenomeno è più accentuato tra quelli dell’Ue19 (con una quota pari al 19,2 per cento nel 2008). I divari sono da imputare sia al minore inserimento dei giovani nell’occupazione, sia alla loro maggiore condizione di inattività (piuttosto che di disoccupazione) rispetto ai giovani degli altri paesi europei; ciò mette in evidenza una minore capacità del mercato del lavoro italiano di includere i giovani, generando uno stato di inattività così prolungato da rischiare di trasformarsi in una condizione permanente.
L’impatto della fase ciclica negativa sulla popolazione giovanile ha determinato una significativa flessione degli occupati (300 mila in meno rispetto all’anno precedente tra i 18- 29enni, il 79 per cento del calo complessivo dell’occupazione: una caduta oltre tre volte superiore a quella subita dal tasso di occupazione totale ) con un netto svantaggio di genere per le giovani donne, il cui il tasso di occupazione (37 per cento) è di quattordici punti percentuali più basso di quello dei coetanei maschi , tra i quali poco più della metà risulta occupato. Anche se in tutta l’Unione europea i giovani rappresentano un gruppo che ha particolarmente risentito della fase recessiva, l’Italia si colloca all’ultimo posto dell’ordinamento.
È solo un problema di medicina territoriale?
Francesco Medici nell’articolo apparso su “Quotidiano sanità”, titolato “Inutile riformare il territorio senza mettere mano all’ospedale”, sostiene che il Decreto 77 (Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Servizio Sanitario Nazionale) sta, con notevole ritardo, integrando con la cosiddetta parte “territoriale” il capitolo “ospedaliero” figlio del Decreto 70 addirittura del 2015. (Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera. (GU Serie Generale n.127 del 04-06-2015)
Capito che il Decreto Balduzzi degli studi aperti H24 non ha funzionato, con il Decreto 77 si è corretto il tiro dando posti letto al territorio.
Il “territorio” soffrirà anche con il DM 77: si sta cercando di inserire surrettiziamente nella medicina convenzionata il “modus operandi” della dipendenza, lo si sta cercando di fare senza prevedere un diverso tipo di contratto di lavoro.
Urge la riforma del DM 70 anche perché gli ospedali con la Legge 34 hanno costruito (correndo peraltro) posti di terapia intensiva di Sub intensiva che oggi risultano potenzialmente inutili, pandemia permettendo, e quindi inutilizzabili, sempre lì dove non si siano allestiti padiglioni, fiere o chiese riempendoli di attrezzature costosissime che oggi prendono polvere. I DEA di I ma soprattutto di II livello vanno “riformati”.
Quello che deve essere rafforzato ed integrato non è solo il territorio ma è l’ospedale, soprattutto l’ospedale.
Bisogna arrivare a quello che è stato definito l “’ospedale flessibile” ovvero un ospedale che può tranquillamente avere dei reparti chiusi che vengono riaperti secondo emergenze: possa essere un PEIMAF (maxi emergenza) possa essere emergenza infettiva Covid, SARS e quant’altro, possa essere semplicemente un’emergenza stagionale quale la sindrome influenzale. Possa essere solo un piano per recuperare le liste di attesa chirurgiche.
Dobbiamo prevedere sia per il medico ospedaliero e che per il MMG e PLS di assumere non solo medici ed infermieri ma personale amministrativo specializzato per il SSN. Dovremmo prevedere nel nostro SSN una nuova figura professionale una “figura amministrativa di reparto” che coadiuvi medici ed infermieri nei reparti o negli ambulatori ad utilizzare nuovi mezzi tecnologici. È assurdo che il SSN paghi un professionista medico per fare adempimenti burocratici (cartella informatizzata, ricetta elettronica, certificazione INAIL, certificazione medica digitalizzata e quant’altro).
Fabbisogni di personale e percorsi formativi reali.
Quando c’erano le Scuole Infermieristiche presso i Grandi Ospedali italiani si formavano 7/8 infermieri per ogni medico laureato. Con lo sviluppo delle attività assistenziali sociosanitarie, residenziali e di prossimità, nonché USCA e ADI, probabilmente ne servirebbero 8/9 per ogni medico.
Stando al prospetto dal 2011 al 2021 abbiamo 1,4 infermieri per medico, media degli ultimi anni 0,9!
Applicando il parametro che si evince dallo studio globale di “The Lancet” citato all’inizio del capitolo il rapporto tra medico e infermieri per 10.000 abitanti dovrebbe essere pari a 3,4 infermieri e ostetriche per medico. Applicandolo abbiamo i dati che potete leggere nella tabella seguente:
Abbiamo assistito in questi anni al trionfo di logiche accademiche di equilibri di potere tra Corsi di Laurea in Medicina e Corsi di Laure in Scienze Infermieristiche giocati sul numero degli studenti come parametro di accesso ai Fondi MUIR, senza nessuna logica programmatoria di garantire il tour over del personale e lo sviluppo necessario dei servizi.
I Piani di Rientro, i tagli ai Fondi per il SSN, la defiscalizzazione del “welfare aziendale”, come cavallo di Troia dello sviluppo della “sanità integrativa” (vedi il “Job Act” dei Governi Renzi e successivi fino ad oggi) hanno fatto il resto.
Oggi affrontare il tema del PNRR senza porsi in modo sostanziale il problema del numero e delle qualifiche del personale, equivale a ridurre lo stesso PNRR in una serie di investimenti strutturali e di dotazioni, pur necessari, che rischiano di essere fini a sé stesi.
Le Determine Regionali sulle location degli investimenti del Modulo 6 del PNRR disegnano scelte fatte con gli Enti Locali al di fuori dei parametri e degli standard definiti dallo stesso PNRR.
Non bastano i programmi di formazione, pur necessari e previsti nel PNRR, non bastano investimenti innovativi, tutti tendenzialmente “labour saving”, servono risorse nuove, qualificate, motivate e oggetto di politiche attive di loro sviluppo professionale e di carriera e nuovi modelli di gestione dei servizi sempre più in una ottica di gestione trasversale per livelli di “intensità di cura” e/o di “livelli di complessità assistenziale”.
Per garantire una “presa in carico” dei pazienti da parte di equipe multi professionali, multidisciplinari, in setting assistenziali diversi gestiti in modo integrato sia a livello ospedaliero che nel territorio.
Servono nuovi modelli gestionali.
Non basta il modello Veneto/Lombardia di trasformare l’OSS in una specie di “aiuto-infermiere” con corsi di 150 ore teoriche e 150 ore di pratica.
Serve altro e presto.
Giorgio Banchieri
Segretario Nazionale ASIQUAS, Docente presso DiSSE, università “Sapienza”