E’ un tema divisivo quello del lavoro dove inevitabilmente le posizioni dei datori e quelle dei dipendenti difficilmente potranno collimare. La presa di posizione di non pochi ristoratori, a rappresentanza di una delle categorie più esposte alla difficoltà di trovare personale per i loro locali, ha suscitato un vespaio di polemiche specie tra coloro i quali ritengono che il problema stia tutto nella mancanza di adeguati ‘stimoli’ economici.
Giusto, a questo proposito, dare i numeri di un settore che secondo la FIPE, Federazione Italiana Pubblici esercizi, nell’inverno che ci siamo da poco lasciati alle spalle per il comparto la ricerca di cuochi specializzati ha superato le 15mila unità, mentre per gli aiuto cuoco si è arrivati a quota 17mila. Ancora più difficile è stato trovare personale di sala e camerieri, con oltre 51mila offerte aperte anche sui canali social come LinkedIn.
Secondo le associazioni di settore, un cuoco – non un chef quindi – percepisce mediamente uno stipendio di 1850 euro al mese, ma nel giro di pochi anni in locali strutturati può arrivare oltre i 5/6mila euro netti; un cameriere, va precisato con un numero di ore molto inferiore rispetto al collega ai fornelli, parte da una retribuzione media attorno ai 900 euro al mese, mediamente si attesta sui 1300 e può arrivare anche oltre i 2mila.
Quali sono quindi le ragioni che fanno di queste figure professionali una chimera per tanti gestori? A raccontare il punto di vista del lavoratore è B.T. , una ragazza residente nella Valle dell’Astico che si è rivolta alla redazione di AltoVicentinOnline per raccontare la sua esperienza: “Appena uscita dalle scuole superiori, ho fatto un periodo all’interno di un’azienda operante nel campo dell’edilizia e degli impianti. Chi si lamenta dei ristoranti dovrebbe sapere che all’epoca, per quello che era stato concordato come un tirocinio retribuito, ho preso una scatola di cioccolatini: tre mesi nei quali, stante le contestuali dimissioni di un’impiegata, mi è stato affidato in toto la gestione del centralino e del rapporto con tutti i clienti. Stavo prendendo la patente e ho potuto pagarmela solo grazie ad un lavoro in pizzeria ad Arsiero, dove prestavo servizio per quattro sere la settimana. Oltre al compenso orario pattuito, venivo gratificata con degli extra ogni volta che il locale faceva il ‘pienone’ ed io non posso che ringraziarli. Chiaro, lavorare mentre gli amici erano a divertirsi e il fidanzato mi aspettava a casa non era facile: ma che ad oggi molti anche in virtù dei sussidi previsti per legge, preferiscano non sacrificarsi troppo, mi pare una realtà di fatto. A chi non piacerebbe il lavoro pulito, weekend liberi e una retribuzione alta magari senza faticare troppo”?
La pensa molto diversamente invece M.C., 24enne di Zanè che per lungo tempo ha fatto da promoter e da cameriere in una discoteca nel basso vicentino: “A me di lavorare la notte e i fine settimana non è mai pesato, non avevo la ragazza perciò univo quasi il lavoro al divertimento. Certo c’è da faticare, ma se una cosa ti piace la fai e basta: il problema però veniva quando era il momento di pagare. Non mi vergogno a dire che ho accettato di lavorare senza contratto e posso dire che era così quasi per tutti gli altri del giro. Il titolare ci avrebbe dovuto pagare al termine di ogni serata, secondo gli accordi, invece ogni scusa era buona per decurtare dalle cifre stabilite o addirittura rinviare il dovuto a data non meglio precisata. Mi ha fatto veramente passare la voglia e ora faccio il meccanico”.
A rappresentare però ancora una volta il fronte di chi il locale lo deve gestire, è un’imprenditrice che sceglie di rimanere anonima anche alla luce dei violenti attacchi social subiti da chi la faccia invece non ha esitato a mettercela consapevole di dire solo la verità: “Lavoro 17 ore al giorno di media” – esordisce la ristoratrice che opera nell’alto vicentino – “perché nn riesco a trovare personale. Abbiamo avuto sempre personale in regola di 20, 30, 40 e anche 50 anni: tra chi doveva lavare i piatti e chi doveva lavorare i fine settimana, sempre tutti contrattualizzati, la durata media non è andata oltre i 10/12 giorni di servizio. Mettere in regola una persona per pochi giorni è un vero salasso: l’ultima apprendista assunta per 3/4 ore, è venuta a lavorare 2 giorni, poi è stata in malattia 10, è tornata per altri 9 ed infine si è licenziata. Ci è costata, tra commercialista e busta paga oltre 700 euro: i ‘negazionisti’ dovrebbero saperle certe cose, sono consapevole che ci sono dei colleghi che hanno dipendenti senza contratto, come immagino altri settori, ma la gran parte i contratti li fa e assicuro che con un contratto di apprendistato, ad oggi, il dipendente prende ben di più di un titolare senza tutti i pensieri che ne derivano. Alla fine pensi anche di chiudere perché ormai il corpo e la mente non reggono: la nostra categoria è stata demolita da 2 anni di covid e adesso che le cose sembrano migliorare e potresti coglierne i frutti, non trovi personale perché tanto pagano mamma e papà. O lo Stato”.
Posizioni inconciliabili, facce di una stessa medaglia che è il mondo del lavoro dove anche la politica negli anni non è riuscita a scardinarne i vizi premiandone invece le eccellenze. Un mondo fatto di paradossi dove per chi non è disposto al minimo sacrificio che del lavoro è parte connaturata, c’è chi d’altra parte alimenta magari senza volerlo, il fuoco della discriminazione. ‘Cercansi commesse diciottenni libere da impegni familiari’, recita un cartello apparso in una storica bottega del centro di Asiago: un annuncio un po’ troppo selettivo secondo alcuni, “un cartello che offende tutti: le donne che sono discriminate, gli uomini che sono praticamente esclusi. In tre righe si riassume tutto lo sconcerto per il lavoro sprecato in questi anni di lotte per le pari opportunità”, secondo la senatrice di IV Daniela Sbrollini che sulla questione non ha esitato a prendere subito posizione.
Marco Zorzi