Dalla cantina all’università. Si potrebbe riassumere così, in queste due parole, l’evoluzione che ha avuto negli ultimi 20 anni, nel nostro Paese, la professione dell’enologo, figura cruciale in uno dei settori, quello vitivinicolo, centrale per il nostro Paese. “Negli ultimi 15 anni -spiega a Labitalia Valentino Ciarla, enologo, nato a Velletri ma toscano d’adozione- è stato creato un vero e proprio corso universitario in ‘Viticoltura ed enologia’ all’interno delle facoltà di Agraria, e a cui si può accedere in diverse università italiane. Si tratta di un corso triennale, cui può seguire una laurea specialistica”.
“Ovviamente, questa è la parte scolastica della formazione -spiega Ciarla, che lavora come libero professionista fornendo consulenze ad aziende soprattutto in Toscana, Umbria, Sicilia e Lazio- ma una parte importante della formazione avviene ‘sul campo’. E negli ultimi anni spesso con esperienze anche all’estero, che permettono di avere una visuale più ampia, importanti in un lavoro dove la sensibilità è fondamentale”. Se fino a qualche anno fa erano poche le cantine ad avvalersi di un enologo professionista, oggi sono molte le aziende che ricorrono a questa figura per garantire uno standard qualitativo elevato del vino. “Vi sono molti enologi che lavorano alle dirette dipendenze delle aziende, soprattutto quelle più grandi, con compiti manageriali direttivi e vi sono invece consulenti che lavorano per più cantine”, spiega Ciarla.
Ma cosa fa esattamente un enologo? “E’ il professionista che segue la produzione, dall’uva fino al prodotto finito, con un ruolo di controllo -ricorda Ciarla- e lo fa raccordandosi con gli agronomi”. Il periodo più impegnativo e critico è naturalmente “quello della vendemmia, con inizio nella seconda metà di agosto e fino alla fine di ottobre”, ma i compiti dell’enologo variano con le stagioni. “Occorre fare una serie di scelte durante tutto l’anno -afferma Ciarla- perché il prodotto finale sia quello fissato d’accordo con la proprietà”.
“Quindi si decide quando è il momento giusto della raccolta, anche assaggiando l’uva, perché gli strumenti principali del nostro lavoro sono i sensi, olfatto e gusto, per poi proseguire -dice Ciarla- con la fermentazione e l’affinamento (detto più impropriamente ‘invecchiamento’), che può avvenire nelle botti di legno, nelle barriques piuttosto che in botti di acciao inox”.
Non spetta invece all’enologo la scelta della bottiglia, in genere affidata al marketing aziendale. “L’enologo invece -sottolinea Ciarla- dice la sua sul tappo, che tradizionalmente è di sughero, anche se ormai esistono tappi sintetici che hanno una loro validità e che stanno prendendo spesso il posto del sughero. E, tecnicamente parlando, non si può mai giudicare un vino da un’etichetta, da una forma di bottiglia o da un tappo: il vino va degustato e solo allora -conclude- si capisce com’è”. (adnkronos)