Infoibati perché italiani, esuli perché fedeli alla Patria. Dolore, ricordo e richiesta di giustizia hanno sorretto Anna Maria Fagarazzi a Piovene Rocchette nella serata dedicata al ‘Giorno del Ricordo’.“Una serata importante per far rivivere una storia messa a tacere da chi vinse la guerra”, commenta Erminio Masero, Sindaco di Piovene Rocchette.

 

Su invito dell’Amministrazione Comunale Anna Maria Fagarazzi ha portato la sua testimonianza a Piovene Rocchette, “perché conoscere la storia aiuta a sviluppare un pensiero proprio e agire nel presente con azioni diverse, affinché tragedie come il massacro istriano-dalmata non accadano ancora”, spiega la Consigliera Comunale Maria Cristina Costa. “Guardando al passato dovremmo prendere sempre grandi insegnamenti: dovremmo capire che i problemi non vanno risolti con bombe o fucili, ma con l’intelligenza -continua il Sindaco Masero, accennando alla guerra in Ucraina- Purtroppo gli interessi economici e capitalistici calpestano sempre l’interesse umano. Al popolo ucraino va la nostra solidarietà”.

“Dio mi ha dato questa voce per raccontarvi tutto” 

86 anni e una voce che senza microfono raggiunge ciascuna persona seduta in Sala Conferenze. “Dio mi ha dato questa voce perché sapeva cosa avrei dovuto fare: raccontarvi la verità sui profughi istriani e sugli infoibati”. Inizia così la sua serata Anna Maria Fagarazzi che dal giorno in cui i partigiani comunisti di Tito le strapparono l’anima, “avevo solo 9 anni”, promise a se stessa che avrebbe raccontato tutto a tutti. “Rinnovare e conservare la memoria di una tragedia italiana, per raccontare che la guerra non è umana. Noi esuli siamo il risultato della guerra”. E lo fa con dovizia storica, partendo dalle origini della terra che le ha dato i natali e arrivando alla data di non ritorno: “la notte tra l’8 e il 9 settembre del ’43 quando arrivarono delle persone che parlavano slavo, vestite con divise raffazzonate”. A pochi giorni dalla firma dell’Armistizio di Cassibile, del 3 settembre ma reso ufficiale l’8 dal Generale Badoglio e col quale l’Italia abbandona l’Asse firmando l’accordo con gli Alleati anglo-americani,  scoppia l’ondata di violenza da parte dei sostenitori del Maresciallo Tito in Istria e Dalmazia, territori storicamente italiani. “Da quella notte cominciano a sparire le persone-racconta Anna Maria-Nessuno sapeva che fine avessero fatto. Quel periodo veniva chiamato ‘il silenzio del terrore’, ma poi scoprimmo dove erano finite: nelle foibe-continua- Fu a Vines, dove un ragazzo cercava disperatamente suo papà: tornando a casa, si trova vicino ad un buco largo 30 metri: si sapeva che c’era e si stava attenti, anche se ogni tanto un asino o una mucca cascava dentro. Sul ciglio del buco il ragazzo vede degli occhiali,  inconfondibili per lui: sono di suo papà, comperati a Vienna. Il giovane immagina che il padre possa essere caduto in questa grande buca e tenta di scendere per vedere se lo trova, ma non ci riesce: le pareti sono piene di spuntoni. Corre in paese, a Vines, a chiedere aiuto: scendono nella cavità troveranno una catasta di cadaveri: avevano scoperto la foiba di Vines. Profonda 80 metri era servita ai partigiani comunisti di Tito per uccidere gli italiani che erano stati portati via da casa, di notte, imprigionati in carceri e nelle vecchie scuole”.

 

Torturati e violentati, poi infoibati 

“Prima di finire infoibati, uomini-donne-bambini, gli italiani venivano torturati. Levavano gli occhi alle persone. Gli uomini venivano evirati e le donne…-Anna Maria Fagarazzi sembra prendere fiato, come se il ricordo le schiacciasse i polmoni oltre al cuore-…Le donne venivano violentate. Di qualsiasi età. Anche bambine di 3 anni. Anche i bambini maschi venivano violentati. Alle donne veniva tagliato via il seno. Dopo legavano loro i polsi dietro la schiena con del filo di ferro e messi in fila di fronte alla foiba: sparavano alla persona che stava al centro della fila, facendo in modo che cascando dentro la foiba si trascinava tutti gli altri”.

 

Norma Cossetto, “racconto la sua storia in nome di tutte le donne uccise” 

“Ero grande amica di sua sorella Licia e un giorno le chiesi di raccontarmi tutto. Norma aveva 23 anni, studiava all’università di Padova e stava preparando la sua tesi-ricorda Anna Maria Fagarazzi- A settembre del ’43 venne presa dai partigiani slavi e interrogata. La rilasciano per tornare a prelevarla il giorno dopo: non tornerà più a casa. Finirà seviziata e stuprata dai suoi carcerieri, per una notte intera, legata ad un tavolo. Poi viene portata alla foiba. Lì le dicono che se vuole salvarsi deve collaborare con loro: Norma si rifiuta. La seviziano atrocemente: impalata viene gettata nella foiba”. E’ la notte tra il 4 e il 5 ottobre del 1943.

Finisce la guerra, torna il terrore slavo: diventiamo esuli  

Il 16 ottobre del 43 arrivano i tedeschi- Anna Maria Fagarazzi continua nel suo viaggio storico-Scacciano gli slavi e tanti dei nostri finiscono nei campi di concentramento. Il 9 gennaio del ’44 Pola subisce il primo bombardamento: muoiono 77 persone e i feriti sono più di cento. Nel giorno del Corpus Domini (8 giugno 1944) 40 bombardieri distruggono la città: la gente di Pola è costretta a sfollare. A 12 km dalla città  (Dignano d’Istria) papà prende in affitto un appartamento: lì passerò la mia ultima estate felice,  da bambina, tra distese di grano, fiordalisi e papaveri: fiori che non voglio più vedere. Poi si torna a scuola, a ottobre. I mesi passano. In Italia il 25 aprile del ’45 c’è la Liberazione, da noi no. Il 1°maggio vediamo tornare gli slavi: sappiamo cosa fanno e come uccidono. Una sera di metà maggio 4 uomini vengono a casa nostra e portano via papà: non sappiamo dove”. In casa i giorni passano nella paura: temono che il padre di Anna Maria Fagarazzi sia stato infoibato. Una sorte che la stessa pensa sia destinata a lei quando, ai primi di giugno, viene prelevata a scuola. “Ero in classe ad ascoltare la maestra che spiegava il Risorgimento-continua-4 ‘drusi’, i comunisti di Tito, mi portarono in piazza e mi obbligarono ad assistere all’ uccisione di due giovani. Uno era il figlio del segretario comunale, amico di papà. Gli slavi mi portarono vicino ai due ragazzi, a 5-6 metri, costringendomi a tenere il viso su di loro mentre li uccidevano con dei piccoli coltellini. Una morte atroce a cui dovetti assistere a soli 9 anni: vedevo tutto quel sangue, i corpi gettati poi a ridosso del cimitero…mi hanno rubato l’infanzia e l’adolescenza. In quel momento sono diventata un’adulta e ho giurato a me stessa che avrei raccontato tutto quello che stavano facendo a noi italiani. Poi, una notte, una donna bussò alla porta di casa nostra: disse a mia mamma che papà era in carcere e che si trovava nella lista degli infoibati. Mamma mi ha fatto alzare e detto ‘andiamo a Rovigno d’Istria a cercare un certificato’ che serviva per liberare papà. Abbiamo fatto 32 km, a piedi, fino al municipio per prendere questo documento. Poi il ritorno a casa, sempre 32 km e sempre a piedi: mamma è andata al carcere e  consegnato il documento: così papà è tornato a casa. Era irriconoscibile da quanto era stato torturato”.

 

La famiglia torna a riunirsi, ma non per molto. Ancora colpi alla porta nella notte. “Era la solita donna che dice a mia mamma che mio papà deve fuggire subito. E lui scappa. Va verso i boschi, vestito della sola camicia da notte e un paio di pantaloni. Nella fretta si dimentica i documenti. Mamma, allora , decide che sarò io a portarglieli: mi fa indossare delle mutandine strette e mi infila la carte di papà, poi mi accompagna alla porta e mi dice ‘vai’. Ero sola, ero una bambina. Ho camminato tutta la notte: quel bosco è ancora nei miei incubi, perché sentivo tanti rumori, anche di gente che camminava e non sapevo chi fosse. Sono stata 8 ore nel bosco, arrivata a Pola papà non c’era: l’ho aspettato seduta sui gradini di casa. La sera, quando è arrivato ci siamo abbracciati e abbiamo pianto. Non sono più tornata a Dignano d’Istria, dove mamma e le mie due sorelle erano rimaste ostaggio degli slavi. Rimasta con papà sono diventata la donna di casa: lavavo, stiravo e cucinavo. Nei primi giorni del ’46 cominciava a girare la voce che l’Italia avrebbe perso l’Istria e la Dalmazia, che sarebbero state annesse alla Jugoslavia.  Mio papà mi ha insegnato i valori dell’Italia, della Patria Italia: essere italiani per noi era una scelta e da quel momento diventammo esuli-continua Anna Maria Fagarazzi-Non sapevamo dove andare: lì non potevamo restare. Alla fine papà riesce a fare arrivare a Pola la mamma e le mie sorelle. Tutti insieme andiamo al porto, abbandonando così la nostra terra natia, in nome dell’ideale di Patria. Dell’Italia. Per lei abbiamo fatto questo sacrificio. Il 1° febbraio del ’47 ci siamo imbarcati sulla ‘Toscana’ assieme a tantissime altre famiglie; arrivati al porto di Venezia abbiamo trovato i comunisti italiani che ci hanno accolti con sputi e pietre”. Un esodo che per Anna Maria e la sua famiglia ancora non è finito. Manca l’ultima tappa: il campo profughi dove le migliaia di esuli passeranno molti anni tra i morsi della fame e l’assenza di ogni minimo servizio. “Con un treno ci hanno portato a Vicenza: eravamo pigiati in un vagone bestiame, chiuso da fuori con un catenaccio. Alla fine, alle 8 di sera, siamo arrivati al campo profughi: un ex seminario vescovile bombardato”. Ogni stanzone  sarebbe diventata la ‘nuova casa’ di 50 famiglie di profughi: senza intimità, senza niente. Altre stanze erano state suddivise con dei paretini in cotto, creando piccoli box: “Il nostro era 2,40×1,50 metri: dentro due letti a castello dove dormivano io e le mie sorelle. Mamma e papà dormivano sul pavimento. Siamo rimasti lì 7 anni e mezzo, altre famiglie sono rimaste lì 10 e 14 anni- si avvia alla conclusione Anna Maria Fagarazzi- Abbiamo patito una fame terribile. Papà, che in Istria era un impresario edile con molti dipendenti, a Vicenza faceva ogni lavoro: anche pulire, a secchiate, le fogne della città. Eravamo poveri ma con tantissima dignità: noi figli abbiamo studiato, perché i nostri genitori ci dicevano che la cultura ci avrebbe aiutato nella vita. Quando presi la maturità, per la prima volta, papà mi fece un regalo per i miei risultati scolastici: un etto di gorgonzola e due mantovane che poi mamma ha diviso coi miei fratelli. Quando siano riusciti a lasciare il campo profughi ci siamo trasferiti per un anno e mezzo in una vecchia soffitta; i nostri compagni di giochi erano i topi, ma per lo meno eravamo noi soli. Dopo papà ha trovato un appartamento dove, con molto dolore, abbiamo ricostruito la nostra vita”.

a cura Ufficio Stampa Comune di Piovene Rocchette 

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