di Silvia Mari

È finita nell’ingranaggio dell’orditoio Luana D’Orazio, giovane operaia mamma di 22 anni. È morta il 3 maggio straziata dalla macchina che prepara la tela, la trama del tessuto, in un’azienda tessile del pratese. Due indagati, due macchinari sotto sequestro, tanti sogni di cinema infranti e un orfano di 5 anni è tutto quello che resta. La tragedia di Luana si colloca tra la festa della mamma di domenica prossima e lo strascico di polemiche di una piazza dell’1 maggio monopolizzata dell’affaire ddl Zan e dalle pastoie dei vertici Rai con l’annessa corrida dei partiti. Poi il lunedì ecco che irrompe la realtà e restituisce la fotografia di un lavoro in fabbrica, di sogni capitalizzati in turni di lavoro grigi, schiacciati dagli ingranaggi delle macchine. E sembra pieno 1800. Mentre i click, gli Amazon, le app, il distanziamento, i vaccini dovrebbero portarci tutti sulla luna Luana è morta come cent’ anni fa. O duecento. Anche se non c’è un hashtag da fabbrica del bene 4.0, o una t shirt con l’arcobaleno, ai giovani italiani è chiaro che si può morire ancora così? Non ve la scrive nessuno una canzone su Luana? Era una storia semplice la sua, troppo, una mamma sola che lavorava e sognava. Come mille altre. E ha avuto una morte atroce, dilaniata da un ingranaggio impazzito o dalla negligenza umana, chissà. Ancora oggi si soffre e si muore così.

Ma non è glamour, non ha colori, né glitter, né concertoni, né libertà griffate da esibire sul proscenio.  È solo Luana che muore.

Agenzia Dire

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