di Fabrizio Carta
Se il lockdown di primavera era stato ingraziosito da tanti arcobaleni colorati, il nostro Giuseppi stavolta ha pensato bene di esagerare, colorando tutta l’Italia di giallo, di rosso e di arancio.
Senza una logica, come sempre. Regioni che fino a qualche ora prima, letti i proclami di governo, erano da chiudere per sempre, sono diventate gialle, o come è successo in Calabria, dalla bandiera covid-free assegnata dalla Merkel qualche giorno prima, si è passato ad un rosso porpora, probabilmente per la vergogna, quando si è scoperto che il commissario per l’emergenza sanitaria Cotticelli si era scordato di predisporre il piano covid. Bazzecole.
Intanto contagiati e morti aumentano, ed è cosa assodata che si va verso un nuovo ineluttabile lockdown generalizzato. Come a marzo, anche stavolta si aspetterà di incassare gli F24 del 16 novembre, dopo si potrà chiudere tutto. Prima la borsa, poi la vita.
Le aziende intanto affondano in questa palude di chiusure, semi chiusure, strette, ristrette, decretini e decreti bis, ter e quater. Si dice che le prossime erogazioni a fondo perduto le porterà la fatina dei denti.
Intanto le nostre imprese in Europa, insieme a quelle spagnole, sono quelle che hanno ricevuto meno aiuti. La Germania ha stanziato addirittura 194 miliardi in più rispetto a noi, ben 284 miliardi conto i nostri 90 miliardi; siamo dietro anche al Regno Unito, che di miliardi ne ha erogati 201, e alla Francia, che dopo i primi 110 miliardi è appena intervenuta con nuove ulteriori misure.
Purtroppo, le ripetute sospensioni delle attività e la mancanza di aiuti seri generano un mix esplosivo, che sta spingendo le micro, piccole e medie imprese italiane, cuore pulsante del tessuto produttivo del paese, verso una crisi economica e finanziaria sempre più profonda.
Il grido d’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dall’Associazione Nazionale dei Commercialisti italiani, alla luce dei dati del rapporto Cerved 2020 e della Ricerca Mc Kinsey, condotta su oltre 2.200 Pmi di Italia, Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna.
Il Presidente dell’associazione dei commercialisti Marco Cuchel non ha nascosto le sue preoccupazioni per la drammaticità dei numeri rilevati dai due studi, parlando addirittura di “dead line decisiva per l’intero sistema Paese”.
Dall’inchiesta emerge infatti che la metà delle imprese intervistate dichiara che non riuscirà a sopravvivere per più di un anno. In particolare, secondo lo studio, il 22% delle imprese prevede che sarà costretta a dichiarare bancarotta entro sei mesi. Il doppio rispetto alla media europea.
Come ha ricordato il presidente dell’Anc, la crisi del settore delle Pmi, aggravata dalla pandemia, può costare molto cara all’Italia in termini occupazionali, mettendo a rischio oltre un milione di posti di lavoro. “Un carico sociale ed economico assolutamente insostenibile”. E a questo non c’è nulla da aggiungere.
Il principale motivo, come in tutte le crisi delle imprese, è la mancanza di liquidità. Quelli che oggi mancano sono gli schei, il danaro, la linfa vitale del tessuto imprenditoriale, l’olio che fa girare il motore della macchina economica del paese, quello che deve essere rimpolpato dal nostro Stato attraverso le erogazioni, così come ha fatto la Germania.
Le fatture inevase sono passate dal 29% di gennaio 2020 al 45% di maggio e, dopo la breve ripresa estiva, con le nuove chiusure la percentuale non potrà che aumentare ulteriormente. Gli studi analizzati prevedono che le insolvenze globali raggiungeranno una media del 26%, ma l’Italia in questa speciale classifica è sopra la media dell’area osservata. In caso di nuovo lockdown il rischio default passa dall’8,4% al 21,4%. E le bocce sono ancora ferme alla prima ondata.
Tutti questi dati sono ulteriormente confermati e ribaditi anche da Bankitalia, che a seguito di una recente ricerca ha dichiarato ufficialmente per tutti i bilanci delle aziende italiane l’”emergenza pandemica”.
Anche l’istituto italiano, infatti, proprio in questi giorni ha richiamato l’attenzione sui problemi di sottocapitalizzazione delle Pmi italiane, che potrebbe addirittura interessarne una su sei, tanto da autorizzare deroghe ai principi di funzionamento e della continuità, eccezioni avallate dallo stesso Organismo italiano di contabilità, proprio per evitare fallimenti a raffica.
La situazione finanziaria ed economica che ci viene mostrata è avvilente, e ci mostra in modo chiaro che in questi scenari diventerà sempre più difficile intervenire con aumenti di capitale per il ripristino delle condizioni di legalità e per restare sul mercato.
Anche il segretario della Cgia di Mestre, Renato Mason ha cercato nei giorni scorsi di destare l’attenzione sul problema, evidenziando il forte rischio di incorrere in una stretta creditizia a danno di artigiani, piccoli commercianti e partite Iva ancora più energica a seguito della crisi, considerate le endemiche difficoltà di accesso al credito bancario per le moltissime piccole e micro imprese italiane, che alla luce delle nuove disposizioni europee rischiano addirittura di peggiorare.
La risposta del nostro legislatore oramai la conosciamo. Il nuovo codice della crisi d’impresa, che doveva riformare l’intero settore, è il solito intervento scomposto, confusionario e rappezzato, oggetto di innumerevole modifiche ancora prima di entrare in vigore completamente, che anziché apportare chiarimenti crea solo dubbi ed incertezze negli operatori circa i suoi effetti. Amen.
E intanto, gli indicatori rilevati dall’Istat per il mese di settembre, quando eravamo ancora solo agli inizi della seconda ondata, sono tutti negativi, e lasciano poco da sperare per l’immediato futuro, visto l’addensarsi all’orizzonte delle fitte nubi di nuovi mesi di chiusure forzate.
Intanto Speranza sta già pensando al suo secondo libro, “50 sfumature di coviddi”. La prefazione naturalmente la scriverà Angela da Mondello.
Ad maiora!