Per fare un calcolo di quanti tamponi si possono fare in un’ora non servono grandi scienziati, soprattutto se si considera che, da aprile ad oggi, il tampone è il ‘core business’ dell’azienda sanitaria. Difficile comprendere quindi come sia possibile che centinaia di persone rimangano per ore in fila, senza venire scaglionate in appuntamenti circoscritti, dopo aver preso numerini che in una qualsiasi azienda privata consentirebbero agli impiegati di calcolare la fascia oraria di accoglimento dell’utente.

Sono le 18 quando il telefono squilla e dal lavoro ti avvisano che uno dei tuoi collaboratori, che bazzica nel tuo stesso ufficio fatto di poche stanze, è rinchiuso in casa con la moglie in isolamento perché risultato positivo al Covid-19. Un brivido corre lungo la schiena, e mentre pensi “Non può toccare a me, sto benissimo”, ti mordi le labbra e soffochi una giaculatoria di imprecazioni che farebbero impallidire un esercito di camalli, leggendari scaricatori di porto genovesi. Tiri un sospiro, razionalizzi, lasci che a prevalere sia il senso di responsabilità verso te stesso gli altri, e ti rassegni a far parte della sempre più estesa tribù dei tamponandi. Uno squillo al medico di base garantisce l’impegnativa per il gioco a premi del momento: la lotteria del tampone veloce, quella dove tutti sperano di perdere. Proprio qui comincia l’avventura.
Il sito dell’Ulss 7 Pedemontana informa che il punto tampone più vicino è quello dell’ospedale di Santorso, aperto dalle 6:00 alle 22:00, e non serve prenotazione. Alle 18:30 c’è una discreta fila, per certi versi assai prossima all’assembramento. “Se non l’ho preso in ufficio, rischio di prendermelo qui”, pensi. E rimpiangi di non avere in tasca un cornetto rosso portafortuna da accarezzare.
Fortunatamente non piove e non fa troppo freddo. La fila è lunga, composta e silenziosa. Alcuni sono visibilmente tesi, altri rassegnati, molti giocano col telefono. Nelle ore di attesa talvolta gli sguardi si incrociano, qualcuno si mette pure a chiacchierare. È strana la socialità, nell’anno della pandemia. Alcuni pavoni del tampone raccontano storie da habitué: scopri che qualche fidelizzato lo ha fatto anche più di cinque volte, e pensi a come costui sia incasellato in quella miriade di numeri sul Covid-19 che ogni giorno i media vomitano copiosi. Ma l’argomento è complesso e impervio, ed è meglio non pensarci.
Una voce sonora rompe il silenzio. Martino, giovane ranger jesolano catapultato nel nosocomio di Santorso, ha la faccia da bravo ragazzo e un’educazione fuori dal comune. Tra una battuta ed un sorriso, spetta a lui il compito assai poco invidiabile di regolare i flussi dei penitenti che si avviano a capo chino verso il patibolo del tampone. Sono le 19:00, in coda ci sono una settantina di persone e come per magia i componenti della squadra di esaminatori che lavora in appalto staccano, lasciando un solo team di dipendenti Ulss a smaltire il residuo. Una cosa che suona molto come tagliare una gamba a un maratoneta a otto chilometri dalla fine.
Una équipe completa per i tamponi rapidi (ma anche quelli nasofaringei classici) è composta da tre persone: un accettatore che accoglie il paziente e stampa le etichette nominative, e altri due operatori, bardati di tutto punto con tuta mascherina e visiera, dei quali il primo effettua materialmente il prelievo dalla mucosa e l’altro si occupa di bagnare il tampone col reagente e depositare il liquido sul tester vero e proprio il quale nel giro di un quarto d’ora rivela l’eventuale presenza dell’antigene SARS-CoV-2. Un processo piuttosto semplice, tutto sommato, rallentato più dal tempo impiegato per igienizzare la sedia e sostituire i guanti di lattice monouso per ogni paziente.
Guardando la moltitudine di gente in fila e stimando i tempi di smaltimento, Martino la guardia comincia a dissuadere chi si vuole aggiungere a tornare il giorno dopo, «dalle 6 di mattina – consiglia – ma meglio arrivare prima». Alcuni desistono, altri stoici rimangono in fondo al corridoio sperando che un rapido defluire della coda consenta di aggiungersi all’ultimo ai fortunati che si faranno infilare il sottile cotton fioc nel naso.
Alle 21:40 la fila è smaltita, e le sette persone rimaste parcheggiate in attesa in fondo al corridoio reclamano l’accesso al tampone, visto l’orario: mancano venti minuti alle 22:00 e da nessuna parte risultano avvisi o regolamenti che parlino di chiusura anticipata dell’orario di accesso. C’è qualche attimo di tensione: gli operatori sono esausti e i pazienti stanchi dopo ore di attesa in piedi. Le lamentele su un accesso al servizio non perfettamente normato e organizzato da chi ha la responsabilità di farlo rischiano di essere fraintese con mancanza di rispetto per gli operatori presenti, in verità unici veri “eroi” attaccati al dovere che tali si dimostrano una volta in più dando accesso all’ultimo manipolo di tamponandi.
Sono le 21:59. Del tampone del cronista si occupa Annarita, signora gentile che con dolcezza infinita dopo otto ore incessanti ha ancora voglia di chiedere scusa perché «darà un po’ di fastidio, ma ci vuole un attimo». Chissà quante volte lo avrà ripetuto, in questi giorni, sempre con la stessa cortesia, quasi come se fatica e spossatezza le fossero estranee. Passa il tampone a Luciano, che alle 22:15 con un mezzo sorriso esce dalla porta a vetri col referto. È l’ultimo della giornata: negativo. In oltre otto ore di servizio nessuno dello staff si è fermato un attimo, non hanno preso nemmeno un caffè, non hanno potuto neanche andare a fare la pipì perché tra spogliarsi e rivestirsi avrebbero perso troppo tempo. Tirano un sospiro di sollievo, loro dell’équipe, perché sanno che per oggi la guerra è finita, che in un’ora sistemeranno tutto per poi andarsene finalmente a riposare un po’.
“Dopotutto domani è un altro giorno”, diceva Rossella O’Hara al termine di “Via col vento”. E all’alba, fuori dall’Ospedale Alto Vicentino, qualcuno inizierà nuovamente a mettersi in fila.
PS: Martino, Giampietro, Annarita, Luciano. Queste righe rendano onore a voi e ai tanti vostri colleghi sparsi in giro per l’Italia che stanno dando l’anima in questi momenti estremamente difficili, pieni di paura e di tensione. Dirvi grazie per il sacrificio che fate e l’impegno che mettete è sempre troppo poco: sappiamo bene che a motivarvi non è la busta paga, ma sono vera passione e gran senso del dovere. Meritate un management all’altezza della professionalità che spandete, che con procedure chiare e dimensionamenti adeguati sappia efficientare e mettervi nelle condizioni di lavorare al meglio senza rendervi vittime innocenti dell’esasperazione da attesa, pur comprensibile, dei pazienti preoccupati. Caffè e pipì non si negano nemmeno ai condannati: figuratevi se è giusto negarli a voi.
Fatti. Non pugnette.
I principi base del management insegnano che per ogni processo aziendale dovrebbero essere definiti dei parametri (detti KPI) che permettono di misurarne le performance. Non servono corsi intensivi di economia aziendale o ingegneria gestionale per capire che – dopo mesi di esperienza Covid-19 alle spalle e qualche milione di tamponi eseguiti – può essere fatta una stima abbastanza precisa del numero massimo di tamponi rapidi o tradizionali che ogni équipe può effettuare in un’ora. E che, di conseguenza, è anche possibile prevedere il numero massimo di pazienti che ogni ora, sulla base delle squadre in campo, potrà essere soddisfatta. Basterebbe partire da questo semplice ragionamento per scaglionare nelle varie ore le persone in attesa, così da consentire ai pazienti di non starsene per ore in fila in piedi ed evitare soprattutto gli affollamenti a rischio perché coinvolgono pazienti potenzialmente positivi. Se sviluppare e perfezionare una moderna app può apparire troppo futuristico, bastano i bigliettini numerati del fruttivendolo, a patto che vengano abbinati a delle tabelle orarie.
Con la storia dei tamponi siamo di fronte ad un’azienda che distribuisce il prodotto più richiesto dal mercato, che continua a pubblicizzarlo inducendone la richiesta ma che non dà nessuna visibilità dei tempi di attesa né mette un limite al numero massimo delle commesse che può soddisfare sulla base del proprio organico e delle proprie linee produttive. Non serve un Nobel per capire che una politica commerciale siffatta non può che produrre reclami, tensioni e clienti insoddisfatti.
E non si dica che siamo in emergenza. Da marzo, non più. Il vero problema è che a fare le spese di nervosismo e insofferenza dei pazienti non sono mai i manager che “in alto” dovrebbero saper monitorare, gestire e aggiustare al meglio un processo migliorabile, bensì i poveri cristi che se ne stanno in prima linea a fare tamponi e che si dannano anima e core per non scontentare nessuno.
Se a breve interverrà l’Esercito a dare man forte ben venga, ma questo non deve essere un alibi che consenta a chi decide di continuare a non sporcarsi le mani, e a nascondere sotto il tappeto ciò che può e deve essere fatto funzionare meglio. S’ha da fare. Punto.
Luca Fabrello
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