Diventare prete non è stata una vocazione ma un percorso, e lungo la strada mi dispiace solo di non aver avuto figli miei. Non è stata una vocazione fulminante la sua, ma un percorso intenso di vita, vissuta fino all’ultimo respiro e in ogni sfumatura, i cui momenti di debolezza hanno rafforzato il suo amore per Cristo e la convinzione a voler restare sempre ‘un prete’. Don Livio Destro ha celebrato ieri, 30 anni del suo sacerdozio e non fa altro che ripetere ‘tutto è Grazia’. Riceve sorridente nella canonica, le braccia aperte come nell’invocazione della Messa, e per tutto il tempo dell’intervista il suo proverbiale sorriso risplende nella stanza.
Ha 55 anni, ed è nato a Tombelle di Vigonovo in provincia di Padova, dove ha avuto un brillante percorso ecclesiastico, da una famiglia non troppo convinta di avere l’unico figlio maschio con la voglia di fare il prete.
Don Livio, lei ha iniziato la ‘carriera’ di sacerdote nel seminario a Thiene. Era un secchione?
Assolutamente no. Ero bravo a scuola ma ero estremamente vivace. Uno di quei ragazzi che cerca in tutto il sistema per divertirsi. Mi piaceva la matematica e non ero per niente bravo in disegno.
A quanti anni è stato ordinato sacerdote?
A 25 anni. E’ stata la fine di un percorso e l’inizio di un altro.
La sua famiglia era d’accordo?
Ho studiato in seminario anche se la mia famiglia era contraria. Mio padre mi ha detto solo una cosa quando sono partito ‘non condivido la tua scelta, ma la rispetto. Ad un patto: che tu la prenda come una cosa seria e non come un gioco’. E’ stato quello che mi ha fatto crescere e partire convinto per la mia avventura.
Mi racconti il suo percorso spirituale partendo da un punto: la sua vocazione.
Io non ho avuto nessuna vocazione. Sono diventato sacerdote pian piano, ma non era un pallino fisso. Mi sono lasciato le strade aperte e sono diventato prete progressivamente. Sono un capricorno della terza decade: libero e testardo. Se mi avessero imposto qualcosa, io avrei fatto il contrario. La cosa di cui più sono geloso è la libertà. Detesto le costrizioni. La mia vera vocazione è la libertà.
Qual è il suo ricordo più bello degli ultimi 30 anni?
Tanti volti di persone, tanti fatti, non una cosa sola. Ho avuto a che fare con talmente tante persone, che ricordare un solo fatto mi sarebbe impossibile. Io sono stato impegnato al servizio della Diocesi Pastorale Sociale e del lavoro, cioè nella parte ‘reale’ della chiesa, quella in cui la dottrina si relaziona con la finanza e l’economia, per cui ho vissuto tante cose bellissime.
Il ricordo più brutto?
Avevo appena iniziato a Padova. Hanno chiuso la Aperol, e tanti impiegati qualificati sono rimasti disoccupati in tarda età e faticavano a trovare impiego. Tra loro una signora con due figli all’università. Non riusciva a sbarcare il lunario e non sapevo come aiutarla. Alla fine la situazione si è sbloccata, per lei e gli altri, ma è stato angosciante. Oggi stiamo rivivendo questa situazione.
Che cosa le piace della Chiesa? Durante la messa lei dice ‘Famiglia della Famiglia di Cristo’ con un’enfasi particolare, è questo il succo?
Sì, è questo. La Chiesa è una comunità ed è questo che amo. E’ una comunità, e come tutte le comunità ha le sue fragilità e i suoi difetti, sia chiaro. Però, tante persone insieme creano qualcosa di bello.
Che cosa non le piace della Chiesa?
A volte c’è un po’ di anacronismo, e questo blocca l’evoluzione della Chiesa. Ratzinger, da grande teologo qual è, sta dimostrando che la Chiesa può progredire (accettando i divorziati ad esempio). E’ tedesco, quindi ha le sue maniere, ma è veramente un grande pensatore ed è capace di vedere i tempi che cambiano. Come diceva sempre Filippo Franceschi, il Vescovo di Padova che mi ha ordinato sacerdote ‘Il cambiamento per la Chiesa è la chiave del suo futuro’.
C’è un messaggio che vuole trasmettere ai giovani?
I giovani devono avere passione per se stessi. Amarsi, vivere, rispettare i valori dei quali sono ricchi. Sono gli adulti che spengono i giovani. La politica ha facce vecchie, spesso anche la Chiesa. Nel lavoro prevalgono sempre i vecchi. Se cominciassimo a dare ai giovani gli spazi nei posti che contano, il mondo cambierebbe velocemente perché i giovani sono ricchi di valori, e hanno l’età e la volontà per battersi per ciò in cui credono.
Cosa ne pensa di don Marco Pozza-don Spritz?
A me piace molto l’originalità. Purchè sia un’affermazione di valori, e non affermazione di se stessi. Il prete è fatto per servire, non per affermare.
Lei sa riconoscere le persone che vengono a Messa per presenzialismo da quelle che vengono per fede?
Certamente sì. Vedo chi guarda l’orologio e chi legge l’opuscolo e prega.
Le piacciono gli aspetti materiali della vita?
Molti sì. Ad esempio durante la Messa della Pentecoste in cui indosso l’abito rosso, ho voluto il calice rosso abbinato, che avevo ricevuto in dono tempo prima. Uno sfizio, ma molto piacevole da vedere.
Ha mai avuto una fidanzatina?
Diciamo che ho avuto i miei momenti di tenerezza. Sono stati piacevoli e proprio per questo posso dire che sono stati un aiuto verso la mia carriera ecclesiastica. Non sono stati così forti da fermarmi, anzi, mi hanno spinto in avanti. La mia strada è stata una scelta precisa, non una cosa predeterminata.
Qual è il suo grande amore?
Gesù Cristo. Non è una figura solo storica, è una presenza viva. Chi lo conosce lo ama, e vorrei lo conoscessero più persone possibile.
Che cosa le manca della vita di una persona che non è prete?
Mi manca non aver avuto figli miei. Come prete ho tanti figli spirituali, ma mi sarebbe piaciuto essere chiamato papà nel senso biologico del termine.
Si è mai pentito della sua scelta?
So che sembra banale, ma lo dico con il cuore: no, non mi sono mai pentito.
Anna Bianchini