di Fabrizio Carta
Inizia domani la dieci giorni degli Stati Generali convocati dal reuccio Giuseppe Conte, che non sapendo più chi di inutile chiamare dopo i 450 esperti capitanati da Colao Meravigliao, ha pensato bene di chiamare tutti, rappresentanti politici, soggetti economici, parti sociali, per discutere dei provvedimenti e delle misure per uscire dalla crisi causata dalla pandemia.
Gli Stati Generali, come idea “moderna”, nascono in Francia nel 1302, quando il re Filippo il Bello (da notare da qui in avanti i corsi e ricorsi storici che Giambattista Vico fatti da parte) convoca i rappresentanti di clero, nobiltà e terzo stato, per discutere dei problemi economici e finanziari del paese. Tali periodiche riunioni continueranno ad essere convocate nei momenti di peggiori crisi, fino al 1789, anno della Rivoluzione francese (e che sia di buon auspicio).
In particolare, gli ultimi Stati generali, quelli del 1789, vengono convocati dal re Luigi XVI, per risolvere una grave crisi politica, economica, sociale e finanziaria che affliggeva da anni la Francia, e raggiungere un accordo con le classi sociali, una crisi dovuta ad anni di sprechi, enormi spese militari, e cattiva amministrazione dello Stato, che apportava privilegi ai soliti noti, portando le classi popolari alla miseria e le finanze statali al dissesto. Parlo ancora del 1789, credo.
L’imposizione di nuove tasse, la proposta di nuove riforme amministrative e dell’apparato giudiziario (la proposta della semplificazione è un’evergreen), provoca ulteriori agitazioni che portano il Re Luigi XVI alla convocazione degli Stati Generali, in cui chiedeva di conoscere i desideri e le lamentele del popolo francese, come se non li conoscesse già. Il resto della storia è ben nota, è quella in cui il popolo scende in strada ed il re perde la testa.
Qui in Italia pare che fino a poco tempo fa ci fosse un Parlamento composto da 630 deputati e 315 senatori, ma in tempi di pandemia a poco o nulla sono serviti, in quanto il nostro Governo ha pensato bene di affidarsi a 450 esperti, svuotando di fatto l’organo costituzionale di tutte le proprie funzioni.
Che qualcuno pensi che l’Italia non sia più una democrazia ma una monarchia retta da Conte ce ne siamo accorti bene. Le prove, chiare, precise e concordanti ci vengono date dalle dichiarazioni di alcuni esponenti politici e dell’amministrazione pubblica, che si sono autoproclamati facenti parte di una svanita aristocrazia di settecentesca memoria.
Siamo passati da Ruffini, direttore dell’agenzia delle entrate, che minaccia l’invio di 8,5 milioni di cartelle quando si vede negata la proroga di due anni dei termini di accertamento, a Tridico, Presidente dell’Inps, che accusa di pigrizia gli imprenditori che non riaprono per “profittare” delle “generose” elargizioni che piovono dallo Stato, da Vito Crimi che consiglia alle imprese di non presentare le domande per i contributi a fondo perduto, che tanto arrivano direttamente sul conto, alla Castelli, che basta un click, mentre migliaia di professionisti lavorano da mesi per decriptare i contenuti di decreti scritti “con il piede sinistro”. Per non parlare di Gualtieri, che ancora qualche giorno fa invitava le imprese a presentare le domande per il contributo in modalità cartacea.
Il top della sovranità lo raggiungiamo però con il reuccio Conte che alla giornalista che chiede informazioni sulle zone rosse risponde come l’ultimo degli haters: «Se lei un domani avrà la responsabilità di governo, scriverà lei i decreti e assumerà lei le decisioni»; o qualche settimana dopo, a chi chiedeva lumi sul lavoro di Arcuri: «Se lei ritiene di far meglio, ne terrò conto per il futuro».
A noi questo atteggiamento scollato dalla realtà, assolutamente lontano dalla crisi economica che sta sconvolgendo migliaia di famiglie e di aziende, sembra sconfortante, oltremodo alieno e con un forte retrogusto di pretesa nobiltà.
Conte più che un re ci ricorda il Mascetti di pari rango nobiliare, ed i suoi Stati Generali, più che una soluzione ai problemi dell’Italia, la più ben nota supercazzola del secondo.
Il nostro paese oggi non ha bisogno di sfilate di personaggi, ma di azioni concrete.
Il piano di Colao Meravigliao, superesperto superpagato, documento appena presentato e subito accantonato, fa alla pari con i piani programmatici per sconfiggere la fame nel mondo delle reginette dei concorsi di bellezza. Dall’abolizione del contante alla lotta all’evasione, dal rientro dei capitali esteri alla capitalizzazione delle imprese. Per sentirci dire questo non credo ci fosse bisogno di un superesperto, bastava andare al bar del paese a bere un bianco.
Prima di discutere su come impiegare i 172 miliardi del Recovery plan dell’unione europea, ammesso che arrivino, si pensasse ai 6,7 miliardi di euro stanziati dall’Unione Europea per far fronte alla pandemia, ancora fermi perché non abbiamo comunicato come li spenderemo!
Invece che di lotte retoriche i nostri politici dovrebbero occuparsi dei lavoratori che ancora devono ricevere la cassa integrazione, ed inginocchiarsi per loro e per chi un lavoro tra poco forse non ce l’avrà più. E questa, con un milione e mezzo di posti di lavoro a rischio, non è retorica, ma fatti.
Le aziende, quelle che non chiudono, scappano dall’Italia per via dell’enorme caos fiscale e di ammassi di norme che da anni si stratificano in maniera folle ed insensata. Gli appalti sono ingessati da norme inutili e ridondanti, le grandi opere sono ferme al palo, mentre periodicamente si tira fuori dal cassetto il ponte sullo stretto dell’ingegner Cane. E i cavalcavia continuano a crollare.
E mentre tutto viene schiacciato dall’enorme peso di questo blocco di incompetenza, la nuova pretesa aristocrazia pensa solo a tenere il culo attaccato alla cadrega, gridando al popolo “Se non ha più pane, dategli un bonus (monopattino, però)!”
Ad maiora!