Ho 46anni e ai primi di marzo mi sono ammalato di Covid 19.
Fino al giorno prima stavo bene, ero anche andato a fare visita ai miei genitori e ai genitori della mia compagna, avevo lavorato tutta la settimana serenamente. Non avevo patologie pregresse. All’improvviso la febbre alta, la sensazione di respirare male. Il dottore mi dice di prendere la classica tachipirina, di non preoccuparmi. Intanto le forze mi abbandonano, come la capacità del mio corpo di assorbire ossigeno.
Perché tra le tante cose che questo virus ti toglie c’è proprio la capacità di respirare, e quindi di vivere.
Il mondo in quel momento era ancora il formicaio impazzito che noi conoscevamo. Aperitivi, cena con amici, baci, abbracci, risate, allegria, famiglia. Così descriverei il mio ultimo weekend del pre-virus. Nulla lasciava presagire cosa avrei vissuto di lì a poco.
Dopo qualche giorno con la febbre molto alta, una mattina mi sveglio e provo a farmi una doccia. Mi sento male. La mia compagna chiama il 118, che arriva a sirene spiegate. Le due soccorritrici ancora male equipaggiate, come tutto il personale nei primi momenti dell’epidemia, con la sola mascherina chirurgica e guanti. Vengo portato in un primo ospedale, e messo in sala d’attesa assieme ad un altro paziente. Svengo di nuovo, a causa dell’incapacità del mio corpo di reperire ossigeno. Accorre un medico che passava per caso, e mi soccorre prontamente senza mascherina né guanti. Ripensandoci mi chiedo quante persone sono state mandate allo sbaraglio a combattere una guerra contro un nemico sconosciuto ed infido senza armi adeguate. Agnelli sacrificali (ne sono morti ad oggi più di 150) lanciati contro qualcosa di più grande di loro, per cercare di proteggere noi cittadini, per tenere fede ai loro giuramenti ed ubbidire alla loro coscienza.
Una volta soccorso, vengo sottoposto a vari esami tra cui il famigerato “tampone”, che ovviamente risulterà positivo, e mi attaccano ad una mascherina di ossigeno. Inizia così la mia avventura negli ospedali, e dove inizia ufficialmente la mia lotta contro il Covid 19. Lo scrivo maiuscolo, perché idealizzare un virus mi ha aiutato a concentrarmi nella battaglia, che mi è rimasta dentro. E’ cominciata qualche giorno, e per la precisione dalla comparsa della febbre, anche la mia “solitudine”.
A seguito della mia positività al virus, vengo trasportato in un altro ospedale, che scoprirò in seguito era destinato nei piani della regione e diventare una struttura specializzata. Reparto di pneumologia, con isolamento ferreo.
Nei giorni, che passano lenti, mi aggravo. E’ un venerdì sera, il giorno destinato alla movida e al relax, quando un medico entra e mi comunica che dovrò essere portato in terapia intensiva e intubato. Subito. Chiamo la mia compagna, ma prima le vuole parlare lui per rassicurarla. Nel tragitto che mi separa da quello che pensavo fosse la mia tomba, non riesco a dire nulla alla mai compagna se non che ho paura, che la amavo e che avrei voluto poter fare un sacco di cose con lei, cose che non faremo mai. ‘Ti amo. Tieni duro. Vedrai che andrà bene’. Click. Chiudo il telefono e mi pare per sempre. Nel momento di un possibile addio non ho saputo dire nulla se non banalità, travolto da eventi imprevedibili.
Arrivo in terapia intensiva. Corpi immobili, agitare convulso di persone attorno a macchinari. Mi aggrappo ad una dottoressa e la imploro di farmi dormire. Mi attaccano di tutto nel corpo nudo, senza alcun riparo. Aghi, sensori, ma finalmente mi iniettano qualcosa.
Click.
La mia vita si ferma. Mentre la mia mente vagava nei meandri dell’incoscienza, il mio corpo veniva curato dai miei angeli. Persone che giorno e notte correvano bardati da capo a piedi, con strati e strati di camici, guanti, mascherine e visiere per vegliare sui nostri corpi privi di vita. Alla mia compagna viene comunicato sempre lo stesso messaggio. Perché se si deve accudire il corpo dei malati, bisogna anche fare in modo che chi è a casa, solo, non impazzisca dal dolore. In questo devo dire che la cosa mi è andata bene. Non avrei saputo gestire meglio della mia compagna l’essere “fuori”, l’aspettare il bollettino medico, il comunicare con i miei genitori farcendo di speranza le poche notizie. Mentre il mio corpo lotta da solo, anche lei sola lotta contro la disperazione, isolandosi dal balletto delle cifre di positivi, contagiati, ricoverati, morti, chiudendo con giornali e tv. L’aiutano amici vicini e lontani, che la inondano di messaggi e telefonate. ‘Vedrai che si riprenderà, è giovane, è forte, tranquilla serve solo un pò di pazienza’. No, non sarei riuscito a reggere la cosa. Meglio il coma e lottare con le avversità fisiche, con quelle so fare i conti.
Fino al giorno 26 marzo, quando le comunicano che il giorno dopo avrebbero cominciato a svegliarmi. E in effetti il giorno 27 mi svegliano. Ero in posizione semi sdraiata, con persone attorno, tante persone. Non riesco a muovermi, non muovo nulla, ho qualcosa in bocca, mi dicono di non avere paura, sono ricoperto di fili e sensori. All’improvviso un suono fortissimo mi trafigge le orecchie.
Click.
Si rispegne tutto quanto. Mi spiegheranno dopo che il cuore aveva deciso di fermarsi. Troppo stress nel momento del risveglio dal coma. Faticano a rianimarmi. Mi diranno in seguito che non ci volevano credere, che i medici non mi avrebbero mai lasciato andare, che hanno provato di tutto finché il cuore non è ripartito. Ma io sono solo un corpo, senza volontà né coscienza. Affidato a loro che mi custodiscono, che scelgono per me le medicine, che mi lavano, mi nutrono, mi guariscono.
Venerdì sera non chiamano la mia compagna. Che dovrà passare il weekend senza avere notizia alcuna, la vita in stand by, appesa alla speranza che io sia sveglio. ‘Non sta soffrendo, dorme, mi hanno assicurato che non sente nulla’, si ripete ossessivamente per convincersi.
Vengo svegliato definitivamente il primo aprile. Ritorno alla vita. Stavolta apparentemente senza ulteriori sgambetti del destino. Riapro gli occhi, muovo mani, riprendo lentamente possesso del mio corpo. Mi chiedono cose strane, non ricordo. Bombardato da farmaci, sedativi, antibiotici, antivirali, depredato delle sue difese immunitarie, in lotta con un virus oscuro e misterioso, il mio corpo sta però tornando alla vita. Stanza fredda, luci al neon bianche. Cerco di orientarmi, di acquisire le coordinate del mio corpo, di dove mi trovo. Spazio e tempo mi ripeto. Già il tempo. Quando si dorme il tempo scorre veloce, tra un click e l’altro. Ma quando ci si sveglia il tempo come scorre? Ma soprattutto quanto tempo è trascorso? Chiedo alla prima persona che vedo che ore fossero. E questo diventerà una consuetudine, per riuscire a capire la sequenza dei prossimi eventi.
All’improvviso un suono continuo, un fischio rompe il silenzio. Arrivano i miei angeli. Preoccupati, riesco a vedere dai loro sguardi. Una abilità che ho affinato è saper riconoscere la persona e il suo stato d’animo dagli occhi. Penso a quanto sottovalutiamo gli occhi delle persone, a quanto non notiamo l’espressività degli sguardi. L’ossigeno cala. Sotto i 92, poi sotto i 90, poi sotto gli 85. Arrivano i medici, e non mi pare un bel segnale. Punture, altre medicine, aumentano l’ossigeno portandolo al massimo e cambiandomi la mascherina con un’altra. Piano piano nelle ore successive il valore sale. E capisco dagli occhi più distesi che mi osservano, che la situazione sta rientrando quando arrivo sopra ai 90.
Continua la mia attività di chiedere l’ora. A tutti indistintamente. Per non pensare a ciò che vedo attraverso le vetrate delle altre stanze, specie quella vicino alla mia. Ad un certo punto portano una donna, non so quantificare quanti anni possa avere. Anche lei intubata. Anche lei sotto attacco. Non dura neanche il tempo di completare le procedure. Vedo una dottoressa correre via, mentre gli infermieri si guardano sconsolati, non sapendo bene come agire. Dopo un po’, spostano il corpo senza vita. Arriva un anziano, ma qualcosa non va. Cominciano un massaggio cardiaco in mezzo alla sala, non riesce ad arrivare nemmeno nella sua stanza. Si fermano e lo riportano via. Mi faccio il segno della croce, e mentalmente recito una preghiera. Portano un altro corpo senza volontà, lo attaccano al respiratore meccanico. Prego anche per lui, non so dire se sia un maschio o una femmina.
Comincio a prendere coscienza. ‘Sono un sopravvissuto’, mi ripeto. Ma devo uscire da lì senza altri scossoni, la tempesta è passata ma la nave è malconcia e le vele sono strappate. ‘Ok’, mi dico, ‘cominciamo a capire come siamo messi con i movimenti’. Braccia e mani rispondono, un po’ meno la gamba sinistra che sembra intorpidita, ma c’è. Di notte comincia il freddo. Scopro di non essere in un vero reparto di terapia intensiva. Troppo sopraffollato. Sono in un reparto “adattato”, in una stanza recuperata e sistemata per l’occasione. Senza porte e con l’ingresso che va verso una specie di portone, da dove entrano i trasportati del 118. Le ore passano lentissime. Ogni ora che passa è un’ora in meno che mi separa dalla libertà. Poco dopo le 5 capisco che si c’è un momento di calma.
Arriva la mia idea da bomber. Voglio capire se la mia vita continuerà. Voglio alzarmi in piedi. Ma come? Intanto mi metto seduto. Il mondo gira a velocità impensabile, manca l’equilibrio, il corpo trema, sono squassato da nausea e la vista mi si offusca. ‘Non ho molto tempo’, penso. Prendo il cuscino, lo mordo e mi metto in piedi. Il dolore che mi prende al fianco sinistro è fortissimo, come un pugno improvviso. Sento i cavi e i sensori staccarsi come ormeggi strappati ad una nave impazzita. Ma sono in piedi. Di nuovo. Tocco terra, dondolo, mi aggrappo alle mie ultime forze, ma sono in piedi. Non ci resto che qualche secondo. Accorrono i miei angeli, stavolta con lo sguardo feroce. ‘Guarda che casino, ma sei matto? – mi ammoniscono – ti leghiamo al letto, hai strappato tutto, perdi sangue, non devi farlo mai più’. Ma io sorrido, ero riuscito a mettermi in piedi e tanto mi bastava. La vita a volte è fatta di momenti che si imprimono indelebili nella nostra memoria, e quello era uno di questi. Sorrido perché avevo toccato terra, la nave era in porto.
Dopo due giorni, di sera vengo trasferito. La prima cosa che chiedo è di poter parlar con la mia compagna, che non vedo e non sento da venti giorni. La stanza ha una finestra, potrò rivedere il cielo e piango. Potrò capire se è giorno e notte da solo. La mia compagna è stata informata che sono sveglio, vigile, reattivo forse troppo. ‘Starà piangendo di gioia, dopo le tante lacrime di tragedia, solitudine e disperazione che avrà speso per me’.
Il reparto di terapia semintensiva è la mia nuova casa. Sono senza difese immunitarie mi spiegano, e hai due brutte infezioni. Si si, ma ero in piedi, e ci tornerò, la nave basta sistemarla, non affonda di certo in mare. Mentre vengo trasportato chiedo il nome dei miei nuovi angeli. E’ importante chiedere il nome, dà una connotazione umana agli angeli, li colloca come l’età e da dove vengono, nella società e nel mondo reale. Perché nel mondo reale io non so cosa stia accadendo. Non conosce la solitudine assoluta dei malati, distanti da parenti e amori, degli operatori strappati alle loro famiglie dalla possibilità di contagio. E un malato che ti chiede il nome se lo ricordano, perché sta donando loro una semplice attenzione che li riporta alla loro umanità. Informazioni. Sono il potere, le informazioni. Però bisogna saperle chiederle, e solo a chi si rende disponibile. Gli occhi, servono per vedere, ma comunicano anche la disponibilità o meno al dialogo. Posso parlare poco, perché ogni parola consuma ossigeno e non ne ho molto nei polmoni. Per cui bomber, devi chiedere alle persone giuste, e fare le domande giuste, niente sprechi né stupidaggini. Nome, da dove vieni, età, e poi si improvvisa. Le persone quando le ascolti cambiano. Si distendono, abbassano le difese, parlano, e dalle parole capisci, ti arrivano informazioni, riesci ad unire i puntini.
All’una di notte la porta si apre ed entra un angelo con in mano un oggetto, un telefono. Mi dice di chiamarsi Laura. Era stata lei a portarmi dal reparto alla terapia intensiva, prima di essere intubato, e aveva ascoltato l’ultima telefonata che avevo fatto alla mia compagna. Ne era rimasta sconvolta, tanto da dirmi che non l’avrebbe mai più scordata, e di aver pianto la notte al pensiero. Avendo saputo che sarei stato trasferito, mi sta aspettando con il telefono e il caricabatteria, anche se il suo turno è finito da ore. Mi attacca il caricabatteria alla presa e mi accende il telefono, sorridendo e piangendo. Squillo alla mia compagna e ci scambiamo pochi messaggi. ‘Come stai, ci sono ancora piccola, chi m’ammazza, è stata dura, ti amo’. Piango e piangiamo insieme.
Non dormo da giorni, il mio corpo ma soprattutto la mente comincia a dare segni di cedimento. Imbottito di farmaci, al quinto giorno, riposo 6 ore, tra incubi e ondate di brividi.
Mi hanno tolto parecchi fili, il tubo che mi usciva dal fianco sinistro non c’è più. Restano la mascherina dell’ossigeno, il sondino che mi scorre in gola, dei tubi che mi escono dalla spalla destra, il catetere. Ok ci si può alzare. La mattina seguente c’è troppa confusione, medici pulizie, infermieri. Mi tolgono il sondino e mi portano da mangiare. Ok ci provo nel pomeriggio. La sensazione è diversa ora. Tremo, vacillo, mi aggrappo al letto, cerco un equilibrio spazzato via da tanti giorni di coma, le gambe reggono a malapena, ma ci resto, non cado e non mi lascio andare. Quando la vista si offusca decido che è ora di stendersi.
Il pomeriggio è il momento della solitudine. Scopro subito che sono sottoposto a doppio isolamento, perché posso essere un pericolo per il covid, ma anche perché il mio corpo è senza difese immunitarie e quindi chiunque entra può crearmi dei problemi. Solo ed isolato. Con la mascherina dell’ossigeno che impedisce in parte la vista, e le mani che tremano. Con la voce distorta, senza ossigeno, chiamo Chiara, di nuovo piangendo di gioia. Le chiamate a lei, i messaggi che ci scambiamo da li in avanti, io con fatica a causa del tremolio alle mani, sono per me cariche di energia, linfa vitale che lei con il suo amore mi trasmette. Ogni momento lei c’è e mi fa sentire la sua presenza, anche se fisicamente distaccati. “Two hearts, believing in just one mind”.
Manuel. Gli chiedo per pranzo una insalata, ma scopro che in quel reparto, nella mia situazione non posso mangiare cibi crudi. E’ sempre gentile con me. Tutti sono gentili, alcuni si ricordano di me perché mi avevano visto negli altri reparti, ma per me diventa difficile ricordarmi tutti. Manuel era più gentile. Mi aiutava anche oltre lo stretto necessario. Prima di essere trasferito al reparto normale, mi porta una insalata. Regalo d’addio mi convinco, o gesto d’umanità verso chi ha passato la tempesta e sta riparando la sua barca.
Mi trasferiscono in reparto.
Ultima tappa di questa via crucis personale. Ecco non so perché, sarà il periodo pasquale, sarà il momento di sofferenza, ma ripenso a Gesù, nell’orto del Getsemani, dove sebbene attorniato dai discepoli, sente su di esso il peso della imminente tragedia, e la solitudine assoluta che lo pervade nella sua dimensione umana. Ecco nei malati la sensazione è molto simile. Ci si trova di fronte al dolore, alla paura, da soli, senza ripari : “Padre Mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”. Questo ho sempre pensato. In quei letti siamo stati crocifissi come condannati, e ci siamo affidati a Dio, pervasi dalla paura tutta terrena della morte che aleggiava attorno a noi beffarda, pescando apparentemente a caso vite su vite.
Il mio viaggio negli ospedali, termina con il mio arrivo a casa.
Guarito dal Covid 19, incapace di camminare normalmente, mani tremanti che mi impediscono di scrivere sul telefono, tanti “effetti collaterali”, vengo portato a casa con le cose che avevo nella mia vita di reparto : il camicie ospedaliero, due ciabattine che un infermiere aveva recuperato chissà dove sigillate, e un grande telo bianco che mi avvolgeva quale simil Lazzaro. E così appaio alla mia compagna che non mi vedeva da un mese e mezzo, e che la sua positività al virus tiene ancora distante a lungo, barcollante, ma deciso a salire i gradini di casa, ansimante ma determinato a non mollare. Mai.
Non dimenticherò mai i miei angeli vestiti di blu, i miei pianti, la prima notte dopo il risveglio quando con la tosse vomitavo sangue tanto da inondare il letto, gli incubi, la prima volta che mi sono rivisto allo specchio invecchiato di dieci anni e con dodici chili in meno, la mascherina dell’ossigeno che mi ha accompagnato per più di un mese, lo sguardo di Chiara al mio ritorno, le migliaia di messaggi telefonate mail di persone che mi hanno regalato energia, la prima volta che ho toccato terra dopo la tempesta, il mio primo respiro in questa nuova vita.
Non come un Novello Lazzaro, ma come un Uomo che attraversò il deserto della sofferenza e tornò a bere acqua: ‘ State attenti, non tutti ce la fanno come ho fatto io. Di Covid si muore’
Pier Daniele Dalle Rive