di Emanuela Raimondi
Che poi quel vizio dell’informazione tutta all’italiana di garantire il pluralismo, e in nome del pluralismo dare spazio anche al modo in cui virologo 1 e virologo 2, immunologo 1 e 2 e quel politically correct titolato, urlato, la commistione di linguaggi di comunicazione e livelli di vero contagio – per usare una parola attualmente drammaticamente molto usata – tra infotainment, attualità giornalistica e tra nuovi e vecchi media, è il perfetto assist al proliferare di notizie abusate e buttate in quel grande contenitore dei social e di altre piattaforme che le amplificano.
Così succede che i blog, alcuni di utile controinformazione, altri di fact checking, altri ancora d’opinione, con ottimo controllo delle fonti, vengono a tratti alterni denigrati e buttati nel cesso perché a scrivere non sono in molti casi giornalisti, ma esperti del settore, professori, studiosi, ricercatori.
Così succede che nel pentolone senza più riguardo per i lettori ci entra tutto e il contrario di tutto e quell’art. 21 a cui ci si appella, dalla casalinga al premio Nobel, finisce per autorizzare chiunque a spacciare con presunzione la propria post-verità.
Vedete, è un problema serio. È il vero problema dell’attualità giornalistica e della rappresentazione della realtà sui media. Superati ormai i pregiudizi sul giornalismo online, sui diversi linguaggi del web, sul citizen journalism, resta ancora il problema tutto italiano del pluralismo e di quella media culture per cui più si affronta un tema, più si confonde il lettore/utente, più si sacrifica il controllo delle fonti e la selezione e gerarchizzazione delle notizie, più si incolpa facilmente i ciarlatani del web.
Solo in Italia si può scrivere dello scontro tra Burioni e Tarro e santificare sull’altare della scienza uno o l’altro. Solo in Italia gli esperti diventano attori politicizzati in tv, come ai tempi di Santoro e Travaglio. Solo in Italia i No vax e i Pro vax sono due fazioni che cavalcano l’onda di questo o quello scienziato ritenuto meritevole di parola e in base allo spazio che gli viene dato dai media italiani. Solo in Italia esiste una Barbara D’Urso che manda in diretta tv un servizio in cui un giornalista è su un elicottero guidato dalle forze dell’ordine che si lancia a inseguimenti di cittadini che escono di casa per far pisciare il cane. A Torino c’è stato in questi giorni un aumento di casi del 30% e a dirlo è stata Luciana Littizzetto e La Stampa. Tutti tacciono e danno spazio solo a Veneto e Lombardia. C’è poi un altro inspiegabile fenomeno: tutti i premi Nobel e gli scienziati più o meno illustri vogliono parlare e prendersi uno spazio, senza portare prova delle loro affermazioni, giusto per aggiungere un pizzico di pepe in più alla carne che scotta. Sventolano il titolo e i media fanno a gara per dargli uno spazio sul palco. Rumore di fondo, clickbaiting. Uno dice che il virus è stato creato in laboratorio, l’altro dice no. E così anche i cittadini che cercano di essere più informati si trovano confusi e spiazzati. Mi dite dove stiamo andando? Come si mette un freno a questo caos?
Poi arriva un cittadino, un blogger, uno senza alcun editore alle spalle (magari capita eh) e spiattella link di fonti utili provenienti dalla stampa dei nostri vicini di casa europei, facilmente verificabili – dai lettori creduloni e complottisti, ma anche da quelli più critici – e saltano fuori diverse incongruenze con la stampa italiana.
Noi facciamo le campagne slogan contro le fake news e la “corretta informazione” e lo facciamo oggi, perché basta uno Sgarbi a puntare i cecchini, basta un video su WhatsApp a invocare la pseudoscienza, basta un cittadino che si arroga il diritto ad essere competente in qualsiasi campo, per farle proliferare.
Ma chi le fa queste campagne? Le reti televisive nazionali Rai e Mediaset, che fanno sfilare i titoli delle maggiori testate italiane a cui fanno perdere vergognosamente la credibilità. Le stesse reti che istituiscono task force di debunking, che spacciano spettacolo per informazione e che usano il vecchio e caro metodo del berlusconismo di lobotomizzare il cittadino elettore e buttargli due croccantini di soft news. Il servizio pubblico che serve editori e politici.
Da studiosa, da non giornalista, da aspirante lavoratrice nel campo di questi potentissimi nuovi media, vi dico: secondo me abbiamo perso. È il 2020 e credo che questa pandemia dovrebbe aprire un attento
dibattito sull’informazione in Italia. Poi possiamo citare Umberto Eco sul potere di dire la propria sul web lasciato in mano a chi prima faceva certi commenti al bar, ma sappiamo bene che non è questo il punto. E io mi sveglio tutte le mattine dall’inizio di questa quarantena con amici e conoscenti confusi, sviliti, smarriti e sempre più indifesi e incazzati in balìa di queste ondate. Non rimandate.
Se l’era del new journalism contemporaneo ha messo sullo stesso piano giornalista e lettore (qualsiasi professione e il lettore in realtà), vogliamo dare, almeno sul piano dell’informazione degli strumenti nuovi agli utenti per districarsi in questo mare magnum, oltre a rivedere tutto il sistema dell’informazione?
Vademecum su come difendersi dalle bufale: usate le care newsletter, inventatevi una sezione dedicata sulle homepage di siti giornalistici e blog online, assumete un fact checker, dedicate una striscia quotidiana televisiva, fate intervenire sul tema studiosi dei nuovi media e sociologi della comunicazione, semiologi, che non si sentono MAI da nessuna parte. Introducete nelle scuole queste discipline, non è più rimandabile con la generazione social! Il sistema è crollato, il re è nudo, ed è proprio grazie ai social.
Nel frattempo consiglio ai miei amici e conoscenti 10 goccine di Xanax al giorno, un uso più ponderato dei social, un bagno di umiltà sulle proprie competenze e un’oretta di ricerca al giorno per approfondire notizie e/o tematiche. Studiate, leggete, confrontate, dubitate e fate le pulci ai giornalisti. Non abbiamo modo di bloccare il flusso oceanico di notizie sul web, ma possiamo provare a difenderci usando un po’ di spirito critico.